Una parola

Massaggino ha due esse e due gi, ma sono le due gi che fanno la differenza. Mi fanno sentire calmo e circondato da nessuno, insomma in una stanza dove al massimo si è in due, che uno chiede all’altro: «Mi fai un massaggino?»
Massaggino è una parola così, che se la pronunci in mezzo al mercato non la sentono dall’inizio alla fine, mentre se la pronunci in una camera, su un divano o su un letto, ti riempie il silenzio, ed è talmente lunga che prende tutto l’ossigeno che hai: in qualche modo liscia i pavimenti, sbianca i muri.
E poi finisce in -ino, e in generale tutte le parole che finiscono in –ino, per me, sono più leggere delle altre; sono sottili, fragili, e quando le dico mi sembra di tenerle tra due dita, appena appena, come l’ala di una farfalla.
Massaggino l’ho imparata da mio babbo, quand’ero piccolo, che avevo mal di pancia, e il mio babbo diceva: «Ci vuole un massaggino, adesso ti faccio un massaggino.» E funzionava. Invece se te lo fai da solo non funziona. È una parola da compagnia, da volersi bene, da guarigione, e la puoi usare anche se non stai male per davvero, qualcosa fa.
L’unico problema è che non si può chiedere un massaggino a chiunque. Bisogna avere un po’ di confidenza, altrimenti ti prendono per uno senz’ossa, un debole, un maniaco dei massaggini. Ancora è un tabù nella nostra società. Certe donne pensano subito male. Tu le chiedi: «Vuoi un massaggino?», e hai tutte le buone intenzioni del mondo, ti sembra di essere dolce, premuroso, e invece lei ti guarda come se la volessi stuprare con le buone, e si scansa, ridacchia, e poi non la rivedi più.
Va usata con parsimonia, massaggino. Io, adesso, non la spreco, me la tengo per le occasioni speciali. L’anno scorso, che è stato un anno buono, l’ho usata tre volte. Quest’anno ancora nessuna. Va così, purtroppo. Mi manca un sacco, sul serio, e un po’ mi fa stare male. E niente, ci vorrebbe un massaggino.

Dalla finestra

C’è il filo delle cuffiette che oscilla sul foglio e i miei occhi vanno su e giù dalla finestra. Un impegno mi farebbe alzare per togliermi da qui, precisamente qui, e andarci per davvero sotto la pioggia, la stessa di ieri, anche oggi, e cominciare a correre e strisciare le mani sui muri dei palazzi e sui pali degli autobus, e di gomito anche sui cappotti delle donne, quelle che scelgo io però, coi ciuffi di capelli raccolti dietro le orecchie, le orecchie… Ricordo mia mamma quand’era giovane, che in macchina ascoltava Vasco sbranando la cicca, e io seduto dietro, e lei si girava e sorrideva e io nel dubbio guardavo il finestrino per non sentire vergogna. Bello il finestrino! Belle le finestre, il vetro… Insomma poi continuerei a correre oppure fermerei un taxi per non salire, c’è una musica lontana nascosta dietro la pioggia, e tutti questi bar pieni di gente in camicia che stringe la mano ad altra gente in camicia; i bar, posti pieni di bicchieri, i bar, un milione di bicchieri che, se fosse per me, li porterei tutti fuori dai bar e li metterei per strada a raccogliere questa pioggia, che viene giù sempre meglio, sempre più bella. Invece riapro gli occhi, sono all’angolo del mio salotto, la schiena sbilenca come un cartello tamponato, e va tutto bene mi dico, va tutto bene: mia mamma è invecchiata, Vasco è invecchiato (ma non troppo), la gente in camicia invecchierà e verrà sostituita da altra gente in camicia più giovane. E i bar chiuderanno e altri bar riapriranno, ma sono sicuro che rimarranno circa lo stesso numero di adesso. Però la pioggia non invecchia, e continuerei a guardarla ancora un po’. Ogni volta che ritorna mi sembra che ci salutiamo e ci diciamo poche parole, parole che ti escono da un mezzo sorriso che non ti riesci a cavare dalla faccia, e io la spio dalla finestra, la pioggia, e lei mi prende tutti i pensieri come quando penso a una che mi piace e che non vedo, invece la pioggia la vedo, è dappertutto, fuori, e diventa dappertutto anche dentro la mia testa. E quindi va bene, come dicevo, anche oggi, qui, va tutto bene, più o meno, sia dentro che fuori.