Il menù

In foto: S di Alberto D’Amico

Immaginate trenta file da dieci persone, separate da un corridoio ogni tanto, i finestrini ai lati, le luci per leggere e l’aria condizionata a tutto spiano. Immaginatevi che ognuna di quelle persone, sedute nelle trenta file da dieci, spalle strette, gomiti sacrificati, stia mangiando una vaschetta di cibo sul tavolino richiudibile del sedile davanti. Immaginate il menù: pasta col sugo di funghi e salsiccia, contorno d’insalata mista, pane, cracker, burro, formaggio sciolto, salsa yogurt e tortina al mirtillo. Ma immaginatevi che tutto sia mignon, in piccole confezioni di plastica complete di posate e fazzolettino, acqua da 25 cl.
Se hai fame, puoi immaginare, mangi più che volentieri, non stai a farti tante seghe, stringi i gomiti e neanche lo senti; ma se non hai fame e ci pensi, e scarti la fretta che ti ha preso la faccia nel masticare, se ti fermi e ti guardi intorno, fa paura. Sembra un formicaio. O una dittatura.
Ma va bene così, per questo fa paura.
Hai pagato per questo, e tutto sommato agli altri sta bene, chiacchierano e sbevazzano, le hostess ti rimpinzano il bicchiere e l’aereo vola dritto. Immaginatevi trenta file da dieci persone, separate da un corridoio ogni tanto, i finestrini ai lati e il mondo tondo fuori. Non c’è più bisogno d’immaginare niente.
Ammucchi le cartacce nella scatolina più grande, e dentro la scatolina media dentro la scatolina piccola. Una hostess passa a sparecchiare, poi schiaccia il pedale del bidone del carrellino che spinge, e ci scarica tutto dentro: noi, trenta file da dieci, seduti vicini. Lo senti?
Non siamo neanche morti. Abbiamo pagato un biglietto. L’aereo vola dritto, e a pensarci bene c’è uno che lo sta guidando.

Bello. Adesso muoio. Ciao.

Dipinto di Jack Kerouac, Sacred Heart.

È stato un giorno strano ieri, cominciato male: ero in bicicletta, forbici e scotch nelle mani, sotto un portico, vicino a una grondaia, che stavo attaccando un volantino; li ho fatti io, scritti e stampati, poi li ho tagliati e ho fatto le frangette col mio numero di cellulare; tutto sommato un volantino curato, editoriale oserei dire, e insomma lo stavo attaccando, era l’ultimo, ne avevo stampati più di trenta e quello era proprio l’ultimo, ero lì sotto un portico vicino alla grondaia e pensavo: «Ma non è meglio che non lo attacco, visto che è l’ultimo?»
Potevo tenerlo per ricordo o ci potevo far le fotocopie, tra due o tre mesi quando mi sarebbero riserviti. Ma poi no, ho detto: «No, lo attacco», e l’ho attaccato per bene, con lo scotch di qua e di là, dritto perfetto, un bel lavoro, e visto che era l’ultimo, l’ultimissimo, mi è venuta voglia di leggerlo.
E poi arrivo in fondo, dove ci sono le frangette con scritto il mio numero, scritto piccolino, e leggo anche lì, e rileggo due volte…
Non è possibile. Ho sbagliato a scriverlo? Trenta volantini dappertutto col mio numero sbagliato?
Mi son sentito un idiota, ma un idiota vero, autentico. E adesso?
Adesso mi tocca rifarli tutti e staccare quei vecchi e attaccare quei nuovi: un lavorone. E poi non mi ricordo tutti i posti dove li attaccati, come faccio? Niente, ho lasciato perdere e son tornato a casa, ho buttato lo zaino per terra e mi sono steso sul divano, gambe lunghe, coperta, mani sulla pancia, e ho dormito quattro ore, tutto il pomeriggio. Mi son svegliato che era notte. Non capivo più niente. Mi son messo seduto sul divano e ho pensato: «Ma cosa è stato?». E non era per i volantini, ma per il sogno che avevo fatto. Non ho mai fatto un sogno così.
Insomma in giro, nei telegiornali, dappertutto nel sogno, dicevano che era l’ultimo giorno del mondo. L’ultimo. Dicevano che quella notte sarebbe scoppiato il cielo e saremmo morti tutti. Alcuni erano preoccupati, altri no, non si capiva bene. E io, quella sera, chissà perché, ero a San Mauro Pascoli, in piazza, forse perché San Mauro Pascoli è dove abitano i miei nonni, ma non c’erano i miei nonni, c’era la Martina, una che abitava a San Mauro un po’ di anni fa, e lei era lì nel mezzo della piazza e io le ero andato incontro e l’avevo salutata, ma poi il cielo aveva cominciato a spaccarsi. C’erano delle crepe d’argento luminose, e poi le luci e dei buchi verdi gialli rossi e si sentivano scoppi di continuo. A un certo punto si è cominciata a muovere la terra sotto i piedi, a piegarsi, ad alzarsi come le onde, e io e la Martina eravamo scappati, tutti correvano, cercavamo di salvarci perché c’erano dei punti dove l’ossigeno veniva meno, allora correvamo ma non tanto per salvarci, era per vedere, volevamo vedere fino in fondo.
Era arrivata un’onda altissima come nei film mentre correvamo, e c’eravamo riparati dietro una casa e un sacco di gente era stata travolta, proprio una valanga d’acqua, ma noi stavamo bene, eravamo come DiCaprio e quell’altra sul Titanic, uguali, andavamo per mano, e poi il cielo era sempre peggio e io pensavo ai miei genitori e ai miei nonni, chissà dov’erano, se erano già morti, e in pratica il cielo si era bucato, si vedeva l’universo e non si respirava più, e la Martina l’avevo persa di vista così avevo tirato fuori il cellulare e c’era un messaggio di mio babbo che diceva: «Bello. Adesso muoio. Ciao».
E poi il buio, le urla…
Mi son svegliato per un rumore in casa ma poi mi sono rimesso giù, per vedere come finiva. E il sogno è continuato in un altro posto, la Martina non c’era, era una specie di prigione e io ero lì con altri che dovevamo fare dei lavori, perché nel mondo nuovo si doveva fare così, e ogni tanto uno lo liberavano e passavano i giorni e c’erano alcuni che erano lì da tantissimo ma non li liberavano, invece a me sì, mi hanno fatto uscire, e quando sono uscito ho scoperto che la fine del mondo era stata tutto uno spettacolo, se l’erano inventata quelli della televisione, e adesso era uscito il libro che spiegava tutto. Ma la Martina? Era viva o no?
Allora ho pensato che quel sogno era stato colpa dei volantini, che sono un idiota, devo rifar tutto, è vero, e anche con la Martina nella realtà è andata malissimo, e anche con lei se voglio, se vuole anche lei, che non è detto, bisognerebbe rifare tutto.
E poi ho pensato che se uno vuole non si deve abbattere, non deve aver la pigrizia, anzi deve essere contento di rifare le cose perché questo è il mondo e se un giorno finisce, dopo non si può più rifare niente. Invece è bello il mondo, è molto bello. Come diceva il messaggio di mio babbo sul cellulare: «Bello. Adesso muoio. Ciao».
Adesso correggo il mio numero sui volantini, li ristampo, esco e prendo la bicicletta e faccio il giro del quartiere, vado sotto quel portico vicino alla grondaia, e poi giro anche tutta Bologna, e anche l’Italia, il mondo, coi miei volantini nuovi, vado dappertutto. E non torno a casa finché non scoppia il cielo.

Delfino

Sono sul treno, è caldo, è quella mezza stagione che non si capisce, sento la temperatura del mio corpo che va per i fatti suoi, hai presente? È la primavera; non me la ricordavo così, la primavera, ogni anno è peggio, sempre più dura da smussare, all’inizio, appena arriva. O che sono io, che ogni anno son più noioso? Bisogna stare attenti, con la primavera. Ti frega. Un po’ di sole, ti dà il contentino, e poi prendi la febbre, il mal di pancia, tutto. Me l’aveva detto la Benedetta, l’altra sera, l’aveva ridetto quattro volte, «Sta’ attento, copriti, ti freghi,» diceva, «marzo e aprile, fa rima, ti devi coprire», e io no, senza giacchetto, maglia aperta, vino, birra, comunque non fa rima, aprile con coprire. Ma lei aveva bevuto di più, sempre vino, senza neanche mangiare, era ubriaca per bene, due occhi chiari, piccoli, diceva: «Sta’ attento, copriti, prendi il mal di gola», e io non capivo se scherzava, boh. Io le ho detto che c’avevo ancora i calzini di lana, nei piedi, non ci credeva, ha voluto sentirli con le mani se erano di lana, e ci è rimasta male. Che poi, me ne sono accorto lì, mi si erano girati col tallone in su, quei calzini, mi succede spesso la notte, mi sveglio e li ritrovo così, e gliel’ho detto, lei ci ha pensato un po’… Il motivo non l’abbiamo trovato. E poi m’ha raccontato una cosa privata, strana, che le è successa, che ci ha pensato se dirmelo o no, «Te lo dico?» diceva, e poi me l’ha detto, m’ha raccontato che adesso ha un moroso, uno che fa l’educatore, e l’altra volta, ha detto, l’altra volta, per la prima volta nella sua vita, lei, con lui, ha avuto un orgasmo vaginale. Ha detto che ormai si era rassegnata, che aveva letto delle robe, su internet, che ci sono delle donne che l’orgasmo vaginale non lo possono avere, e invece, proprio l’altra volta, con lui, l’educatore, l’ha avuto. Si sono fermati, stop, ha detto, si sono guardati, lui le ha chiesto: «Hai scoreggiato?» e lei: «No, sei venuto?» e lui: «No».
È andata così. Da quella volta, dice, ha scelto un nome, per sé stessa, che si chiama Benedetta, un nome nuovo: Delfino. Perché il delfino spruzza, dice. E io ci pensavo, mentre lei parlava, chissà, metti che viene a letto con me, e se con me non succede? E dopo?
E comunque poi ha cambiato discorso, ha detto che lavora in un ristorante, che sta bene, ha trent’anni, ma il suo moroso, l’educatore, vuole lasciarlo, basta, perché lei è un Delfino, è libera, e invece lui fa il muso quando lei esce con le sue amiche, e lei non sopporta queste cose: se uno è fatto così a lei non le va bene, vuole uno diverso, non uno che s’impegna a fare il bravo, ma uno che è fatto bene di suo, compatibile, dice, e lei vuol essere libera, senza tanti restringimenti. Da piccola, dice, la sua nonna ha fatto sette figli e il suo nonno la tradiva, che suo nonno era un ricco, ha viaggiato, un commendatore, e la sua nonna è sempre stata zitta, anche se poi si è separata da lui, si è separata che a quei tempi non c’era ancora il divorzio, era forte la sua nonna, ma poi a Pasqua e Natale lo invitava lo stesso a mangiare, al nonno, perché i suoi figli dovevano vedere di chi erano i figli.
Poi ha cominciato a piovere, abbiamo parlato di politica, e un po’, lì, con la politica, lei è per la Bonino, io tutto il contrario… Però quando partiva a dire una cosa che le stava a cuore, coi suoi capelli corti, era bella, mi sembrava un ragazzino, uno che non si tiene. E andare a letto con una così, pensavo, io, che sono lento, lei così rapida in tutto, prima ha detto che il pisello del suo moroso, l’educatore, le piace un sacco, anche se lo vuol lasciare, che lei lavora al ristorante, fuma, vende l’erba, vede la gente, io sto sempre da solo, non è mica facile. E parlando, parlando, non si è accorta che pioveva, e si è bagnata tutta la chiappa, giacchetto e pantaloni, tutta, e ci siamo alzati, ormai il bar chiudeva, non c’era più nessuno, a un certo punto mi ha detto: «Ti darei un bacio», e io non ho detto niente. Era naturale, ho pensato, ma è brutto dirlo, «Ma perché l’hai detto?» le ho detto, e insomma, di qua e di là, dopo dieci, quindici, venti minuti ci siamo baciati, dentro il bar vuoto, che fuori era venuto freddo, lì sul bancone, c’aveva una lingua lunga e larga che non l’ho mai sentita una lingua così, e mi ha detto: «Fa’ piano», ma a me sembrava che stava facendo tutto lei. E m’ha accarezzato la guancia, io volevo toccare la sua chiappa bagnata, ma non l’ho toccata, è lo stesso, poi basta, siamo andati ognuno a casa sua.
Chissà l’educatore, dopo, a casa, l’orgasmo vaginale, se è riuscito di nuovo.
E io sono qui sul treno, col pizzico alla gola, mi sono vestito troppo colorato, la pancia che mi fa male, è stata la primavera, o è stata lei? E sembra estate di fuori, a Pesaro, il mare azzurro, senza nessuno, e la cosa strana è che in tutto questo mare, di sicuro, da Pesaro a Lecce e tornar su fino a Trieste, e anche dall’altra parte, dalla Liguria a Roma, giù fino a Trapani, qui da noi, nel nostro mare, non c’è neanche uno straccio di delfino.

La prefazione

Succede che sto lì col libro in mano, lo rigiro, lo guardo a testa in giù, lo stringo, mi faccio vento, striscio una guancia sulle pagine per cercare qualcosa, delle scritte che non ho ancora visto, quelle nelle prime pagine, che quando cominci a leggere non le vedi neanche, e poi il codice a barre, i numerini, le barre sottili e le barre grasse, sono di più quelle sottili o quelle grasse? Chi vince?
E poi niente, lo lascio lì e gli do un’occhiata da in piedi, lui è fermo e io vado via, esco, e per un po’, cinque o sei ore, ragiono con quella testa, col cervello del libro o di quello che l’ha scritto, e non capisco mai se è meglio o peggio, se sono diventato intelligente o più stupido. Poi lo caccio dalla mia testa e passano i giorni e non ci penso più.
Quando torno a casa il libro è ancora lì, con la copertina che viene su, sembra che ti vuol venire in braccio, frigna; ci sono un mucchio di libri nel mondo, ne voglio un altro e invece lui, sul divano, le pagine in silenzio, non si muovono, ma la copertina… Allora lo prendo e lo metto sulla mensola, lo rivolto con la copertina in giù, schiacciata, così sta zitto. Ma delle volte, la sera, dopo mangiato, torno lì alla mensola, in punta di piedi, e guardo se è ancora così, a pancia in giù, se non si è mosso, lo bado, vado a pisciare e poi ritorno, che mi ricordo tutto io, di lui, e invece lui dorme e mi dà le spalle, e se non lo riprendo va a finire che si dimentica di me.
È come con le donne: coi libri ci vai a letto, ci mangi insieme, ci fai dei viaggi, li porti al parco, li accarezzi, li annusi, li tiri contro un muro e ci fai la pace… Me li ricordo tutti i miei libri, quello che era nervoso, quello coi capitoli corti, quello che non finiva mai, quello che andava sempre a capo, insomma sto a sentire i libri come sto a sentire le donne: seduto in un angolino. Che poi anche una donna non è che la stai a sentire solo te, ma anche degli altri: non puoi pretendere di essere l’unico. Se un libro l’ha letto una persona sola vuol dire che non era un gran libro; uguale con le donne: se una è stata solo con te è strano, vuol dire che non aveva tanto mercato.
Però c’è una cosa nei libri che invece le donne non ce l’hanno: la prefazione. Ecco, quella sì che sarebbe utile. Così capisci prima a cosa vai incontro.
O forse è meglio così, senza prefazione?
Se c’è da piangere, alla fine, meglio piangere, se ti senti quella cosa che sale da dentro, che vien su per la gola, se ti senti gli occhi che si gonfiano… Meglio non sapere niente, allora, non sapere mai niente, e ogni volta cominciare una storia, ben venga, come se fosse l’ultima.