Chiavare

Né laico, né prete
intendo votare,
ho sempre sete,
voglio chiavare.

di Antonio Delfini
da Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo
[Einaudi, 2013]

Mani bellissime

Stamattina sono andato a comprare una lampadina, era ormai mezzogiorno, c’era il sole, perché mi si è bruciata la lampadina della mia lampada di sale. Allora sono andato in uno di quei negozi dove c’è sempre odore d’incenso, che vendono tutte quelle robine così, gli orecchini, gli anellini, i tappetini per fare yoga, e vendono anche le lampade di sale, per quello ci sono andato.
C’era la commessa, in questo negozio, era lì dietro la cassa, bionda, e aveva delle mani bellissime, che appena le ho viste ho pensato “Madonna che mani!”. Mi è venuto in mente che c’ero già andato un’altra volta in un negozio del genere, ma non questo, era un altro, e c’ero andato proprio per comprare la mia lampada di sale. Anche quella volta c’era una commessa, in quell’altro negozio, che aveva anche lei delle mani bellissime.
Allora ho pensato che tutte le commesse che lavorano nei negozi dove c’è odore d’incenso, che vendono tutte quelle robine così, gli orecchini, gli anellini, e anche le lampade di sale, allora tutte quelle commesse hanno le mani bellissime.
Questa scoperta mi ha messo un’euforia inaspettata, anzi, immeritata.
Vedere le mani di quella commessa, stamattina, che era giovane… L’avevo già vista da qualche parte, lei, ho questo ricordo, mi sa che sta con uno, un tipo ganzo e bene inserito; dicevo, vedere delle mani così belle mi ha messo euforia, ma è quell’euforia bastarda, questa, che dopo quando va via mi lascia al freddo.
Quindi era meglio se non ci andavo, in quel negozio. Era meglio se la mia lampadina, invece che bruciarsi, avesse continuato a funzionare come aveva sempre fatto.

I piedi

Che non ci sono state neanche delle grosse litigate, ci sono di quelli che fanno delle litigate che viene giù il soffitto, sì, naturalmente, qualche litigata l’abbiamo fatta anche noi, le litigate in fondo sono il sale della vita, che dopo la litigata c’è la pace, e quella è una cosa, a letto, che ci siamo coricati tutt’e due ingrugnati, con la faccia al muro, ci voltiamo il culo, abbiamo spento la luce, fermi, lì, sulla sponda, ma però ci sono i piedi, che i piedi, detto così, i piedi, dai, non sono una gran cosa, una volta addirittura non li nominavano neanche, che non era educazione, e invece delle volte i piedi, eh, i piedi sono leggeri come piume, sono i petali di un fiore, che sono dei paroloni, sono parole che fanno ridere, lo so, però non è un’esagerazione, perché quello è un momento, che prima vi siete detti delle cose anche cattive, e adesso ci ripensate, ognuno per conto suo, da solo, e tu non ce la fai a stare da solo, non ti addormenti, e neanche lei, ma non sapete come cominciare, e cominciano i piedi, si toccano, così, per caso, anzi no, non si toccano ancora, si sfiorano, si esprimono, anche se non parlano, che non parlano, però, come si può dire? Ecco, sì, sussurrano, c’è questo silenzio, e c’è questo sussurro, e poi si sentono, tu sei freddo, lei è calda, tu ti giri, piano, allunghi una mano, delicatamente, gliela tieni sulla spalla, anche tu senza parlare, la tieni lì, lei fa finta di dormire, ma non dorme neanche lei, e a un certo momento, piano piano, si gira, e vi avvicinate, sempre senza dire niente, al buio, sempre più vicini, e poi attaccati, attaccati, attaccati, e tu con le mani la senti tutta, la disegni, com’è fatta, è fatta che è quasi un miracolo, e tu sei dentro quel miracolo, ed è una cosa che, no, niente, certe cose bisogna provarle.

da La fondazione
di Raffaello Baldini

Offerta libera

Adesso in biblioteca, al piano terra, hanno fatto un corridoio dove ci sono i libri in offerta libera. Li hanno messi su tre o quattro tavoli, così, sparpagliati, alcuni in piedi e alcuni stesi, e sull’ultimo tavolo, in fondo, hanno appeso un cartello. Ci hanno scritto: Offerta libera, minimo 2 euro. Ma come… Se un’offerta è libera, io penso, magari mi sbaglio, ma se è libera, può essere anche meno di due euro, può essere anche uno, o anche zero, può anche non esserci l’offerta, se è libera. Cioè, capiamoci, se l’offerta è libera, può essere che io ti offra niente, ma ti sto offrendo comunque qualcosa, che è niente, che è sempre qualcosa, niente. Anche se non siamo d’accordo su questo, se non pensi che niente sia qualcosa, comunque io ti sto offrendo niente, che è comunque qualcosa, anche se non è niente, è sempre niente, che è qualcosa. Ti offro niente. Se un’offerta è libera, io sono libero di offrire quello che voglio.
Ecco, figuracce come questa sarebbero da evitare, in un posto come la biblioteca, che nella biblioteca di norma ci sono i libri, che i libri sono degli oggetti rettangolari, fatti di carta, tutti pieni di parole, un sacco di parole, che quelli che li hanno scritti ci hanno messo della fatica, e le hanno pesate quelle parole, una per una, perché non si possono sprecare, le parole. Può andar bene alla Festa dell’Unità un cartello del genere, ma in una biblioteca, una roba così, un cartello con scritto Offerta libera, minimo 2 euro… Non voglio essere maleducato, ma io ci piscerei sopra, ci piscerei.
Che poi, a pensarci bene, questa storia dell’Offerta libera non mi è nuova, l’ho già vista, ma non su un cartello, l’ho sentita, come dire, l’ho provata sulla mia pelle adesso che ci penso. Sono sicuro, è capitato più di una volta. Anche qui, non voglio essere grossolano, oltre che maleducato, però ci ho pensato, ecco, le donne… Con le donne uno deve sempre dare qualcosa, altrimenti non va bene, il niente non va mai bene, mi sembra. Certe donne le vedi, ci esci, vai lì e loro ti guardano e pensano “ma cosa me ne viene a me, di stare con uno come te?”, glielo leggi sotto le palle degli occhi, le vedi proprio, che ti valutano, che considerano l’Offerta che stai facendo loro. E anche loro, le donne, non ci puoi mai andare così, a mani vuote, devi sempre avere un qualcosa, altrimenti hai finito, e non è che te lo dicono o che qualcuno te l’ha spiegata questa cosa, la sai già, tutti la sanno e non si è mai detta. È come se le donne, quel cartello con scritto Offerta libera, con un minimo sotto, ce l’avessero in fronte.
Ripeto, non voglio essere presuntuoso, oltre che grossolano e maleducato, ma anche esser presuntuoso, grossolano e maleducato è già qualcosa, anzi sono tre cose, che non è mica poco, in confronto a niente, tre cose. Cioè, una donna, io penso, dovrebbe apprezzare, secondo me, un uomo così, dire “ma sei pieno di risorse!”. Sono tre cose in una volta: presuntuoso, grossolano e maleducato, che rispetto a niente, tre cose rispetto a zero, c’è una bella differenza, per me; è come dire tre anni rispetto a zero anni, o come dire trecento anni rispetto a zero anni, o anche tremila anni rispetto a zero anni. Che, io penso, tra tremila anni e zero anni, o anche solo tra tre anni e zero anni, insomma, adesso non entriamo in discorsi troppo alti, ma lì, tra tre anni e zero anni, ci passa la vita, nel mezzo, che la vita è una roba… Enorme, mi vien da dire, che va oltre…
Quindi, secondo questo principio, potrebbe essere che abbiano ragione le donne a pretendere che un maschio debba avere delle cose da offrire, che siano tre o più di tre, piuttosto che niente. Ma mettiamo, per ipotesi, è una prova, facciamo finta che io non sia né presuntuoso, né grossolano, né maleducato. Ripeto, è un caso ideale, lontano dalla realtà. Poi ipotizziamo che io abbia rispetto per tutto e tutti, compresi donne e cartelli delle biblioteche. Allora, mettiamo che io sia niente, è meglio o peggio per voi?
La vita, quando non ci sei, prima, intendo, quando sei nel niente, che bene o male tutti ce lo ricordiamo, il niente, a pensarci un attimo, così, quel posto vago, quando eravamo nel niente… A me, almeno, mi sembra di ricordarlo, è un sentimento, una specie di cameretta in penombra dove tutto è fermo. Non voglio dilungarmi su questo, ma la vita, secondo me, per quanto possa essere un inferno per qualcuno, o anche piacevole, dipende, io penso che il niente valga come la vita. Niente e vita mi sembra che abbiano lo stesso peso, e che siano fatti con lo stesso materiale.
Tutto questo per dire che in biblioteca, adesso, durerà ancora per un po’, si trovano dei bei libri in offerta libera, che i libri sono delle cose rettangolari, fatti di carta, tutti pieni di parole, scritti da gente che le ha pesate una per una quelle parole, e ci ha messo della fatica. Si trovano in un corridoio, buttati senza logica, su quattro tavoli, sparpagliati, alcuni in piedi e alcuni stesi, e sull’ultimo tavolo, in fondo, hanno appeso un cartello. Ci hanno scritto: Offerta libera, minimo 2 euro. Ed è da ieri che lì c’è una gran puzza di piscio.

Perché mi offendete?

Quando e in quali circostanze egli sia entrato nel dipartimento e chi l’abbia assunto, nessuno l’ha mai potuto ricordare. I direttori e i capi-ufficio di ogni genere, quanti se ne sono avvicendati, l’hanno sempre visto allo stesso posto, nella stessa posizione, nello stesso ufficio: sempre funzionario di scrittura. Tanto che in seguito affermarono che egli era come se fosse nato bell’e pronto, con la sua divisa e la calvizie in fronte. Nel dipartimento non gli mostravano alcun rispetto. I custodi non solo non si alzavano quando egli passava, ma non lo guardavano neppure, come se per l’ingresso volasse una semplice mosca. I capi si comportavano con lui in un modo che era freddamente dispotico. Un certo aiuto capo-ufficio gli ficcava direttamente delle carte sotto il naso, senza neppure dirgli: «trascriva», oppure «ecco un lavoretto interessante, belluccio», o qualche altra cosa piacevole, come avviene negli uffici di gente beneducata. E lui prendeva il lavoro, dopo aver dato un’occhiata alle carte, senza neppure guardare chi gliele porgeva, e senza chiedersi se quello ne avesse il diritto. Le prendeva, e si metteva subito al lavoro. I giovani impiegati ridacchiavano e facevano dello spirito su di lui, il solito spirito da ufficio; in sua presenza si raccontavano delle storielle, composte su di lui, sulla sua padrona, una vecchia di settant’anni, dicevano che lo picchiava, gli chiedevano quando sarebbero avvenute le nozze, gli cospargevano la testa di carta, dicendo che era neve. A tutto questo Akakij Akakievič non rispondeva neppure una parola, come se davanti a lui non ci fosse nessuno, e neppure ci fosse stato; tutto ciò non aveva la minima influenza sul suo lavoro: pur in mezzo a tutti questi tormenti egli non faceva il minimo errore nello scrivere. Solamente, se lo scherzo era troppo insopportabile, quando gli urtavano il braccio, impedendogli di lavorare, diceva: «Lasciatemi in pace, perché mi offendete?».

da Il cappotto
di Nikolaj V. Gogol’

Lettera di un cittadino indignato

in foto lo scrittore William S. Burroughs

Gentile Sindaco,
è la prima volta che Vi scrivo. È perché c’è una, a Santarcangelo, che io da quando la conosco, dai tempi delle scuole, ha sempre avuto un moroso. Ormai se la son passata tutti, sta un anno con uno, poi due anni con un altro, poi ritorna col primo, poi va col suo amico, poi va a lavorare in un posto e diventa morosa del capo, poi lascia il capo per il dipendente, poi c’è il cugino del dipendente, che ha un fratello più piccolo che è amico di quell’altro, e si prende anche lui. E io non capisco perché ci cascan tutti, che adesso ce n’è cascato uno che, so chi è, insomma, lo conosco, non l’avrei mai detto, ma anche lui? A quanto pare sì, anche lui, adesso è il suo turno, fino all’altro ieri era impensabile…
Che io, non voglio dire, ma mi preoccupo anche, certe volte, penso, ma se tra tre anni, quattro anni, mettiamo che cambia un po’ l’aria, si mischiano le cose, che è ormai è tutto liquido, qui, e se mi prende a me? Io le sto lontano, guai, quando la vedo cambio strada, guardo il cellulare, mi metto dietro le colonne, aspetto che passi, a occhi chiusi, che non la voglio neanche sfiorare una così. Cammina con un piglio, passeggia sull’acqua, sembra, e poi è tutta bugiarda quando parla, fa dei discorsi che non si possono sentire; è uguale a un’amica di mia mamma, che la mia mamma mi diceva sempre, quand’ero piccolo, guarda quella com’è bugiarda, ne dice una dietro l’altra, ecco, lei è fatta uguale, si vede proprio, non mi sbaglio, infatti ci cascan tutti, è perché ti frega, ti tira dentro che è un attimo con le stronzate che dice, e sei in trappola. Dopo non si scappa, da quelle trappole lì, t’intorta, e per un anno, due massimo, ti tiene buono, t’accarezza con le sue faccine dolci, i suoi trucchi da bugiarda, poi tanto quando si stufa ne trova un altro. C’è sempre un altro, lì, pronto, che sembra che la aspettino.
Io proprio non capisco come sia possibile. E mi tocca star attento, è questo il peggio, non son tranquillo, è mai possibile che mi debba guardar intorno, nel mio paese, ho paura, mi viene il nervoso solo a pensare che esiste, quella là, che è sempre dappertutto coi suoi intrallazzi… Invece che pensare a quella che vorrei io, quella ragazza, che non la vedo mai, che mi fa titubare, perché poi mi fisso, la sogno di notte e ci penso troppo, mi mette una malinconia, che dopo sbaglio tutto, no, mi tocca pensare a girar da largo a questa qui.
Così non posso campare, o fate qualcosa Voi, Sindaco, che non è giusto per un cittadino, io Vi ho anche votato, oppure mi chiudo in casa e non esco più!

All inclusive

Ho sentito Mauro Corona, lo scrittore, una volta, che ha detto:
«Se non hai equilibrio, in montagna rotoli giù che è una bellezza».
Infatti è andata così.
Sono tornato da Malta e tempo un giorno, son ripartito: ho preso una baita, su, in Val Camonica, sotto le Alpi a 2.000 metri, perché avevo voglia di star da solo; dopo tutta l’estate nel Mediterraneo, sempre coi ragazzi, giorno e notte, un caldo da urlo, “un po’ di montagna mi può far bene”, ho pensato. Allora mi son deciso, sette ore di autostrada, col traffico e tutto, pause all’Autogrill, macchina piena di scorte, tonno, ceci, gallette, maionese, sottaceti, vino bianco, e poi vestiti pesanti, scarponi… E una bacinella, sì, perché il vecchio della baita m’aveva detto che non c’era la doccia, nella sua baita.
Questo vecchio, che mica lo conoscevo, non sapevo neanche che faccia avesse, la sua baita non l’aveva affittata mai a nessuno; me la dava per 100 €, all inclusive, due settimane o anche tre… «Se vuoi puoi starci quanto vuoi», m’aveva detto. Io ho detto ok. In generale ho fiducia, io, nelle persone, soprattutto nelle persone già invecchiate, e insomma arrivo lassù in Lombardia, e lui mi viene incontro, c’incontriamo in un parcheggio… Aveva la barba lunga, ogni tanto tossiva, due begli occhi, sopracciglia nere e folte, i capelli un po’ grigi, fumava come un saggio; dopo mi ha fatto strada, in macchina, fino alla baita, a Zumella, si chiamava così il posto: tutta strada in salita, senza asfalto, una fatica ad andar su…
Arrivati lì, che eravamo in alto, era bello, lui ha tirato fuori le chiavi, e quando ha aperto la porta della baita, si è fatto da parte, e io sono entrato e ho guardato dentro: sembrava un capanno, la baita, un capanno di quelli romagnoli. Tutti i romagnoli ne hanno uno, dietro casa, pieni di roba vecchia, ferraglia, biciclette rotte; chissà perché c’è questa tendenza del capanno, in Romagna… Comunque, ero partito contento quel giorno, lungo l’autostrada, tre ore prima, guidavo, e mi ero accorto di queste cose alte, davanti, una vicina all’altra, appuntite: erano le montagne, facevano impressione. E invece quella baita… La cucina era sotto uno strato di polvere, ragnatele, le sue scarpe sporche appese qua e là, la sua roba per quando va a funghi, maglie, pantaloni, e poi erba, pentole…
Lì per lì gli ho detto va bene, la prendo.
Lui è andato via. Io ho spazzato, poi ho tirato fuori la spesa, l’ho messa negli scaffali, tutto ordinato, ho fatto il letto, che il letto era un materasso per terra senza cuscino, poi sono andato fuori, e c’era una visuale incredibile. Solo silenzio. Era anche freddo. E siccome ero stanco, sono tornato dentro e mi son steso lì, nel materasso sul pavimento; si vedeva la finestra con la montagna, là, gli alberi, e poi due falchi che giravano in tondo.
Ho detto, no, non ci posso stare qui.
Non c’ho pensato troppo, ho rimesso la spesa nelle borse, disfatto il letto, tutto via, son risalito in macchina e l’ho chiamato, al vecchio, e gli ho detto che tornavo a casa. Mi sa che l’aveva capito subito, che non era il posto per me, ma voleva vedere come andava a finire; mi sembrava che ci conoscessimo molto bene, io e il vecchio, quando ci siamo salutati di nuovo, giù al parcheggio.
Son ripartito per strada con un sollievo… Tutto il viaggio all’indietro, le montagne alle spalle e chi se ne frega, pensavo, non dovevo mica dimostrare niente; ascoltavo la radio, e c’era un deficiente che diceva: «Ascoltatori e ascoltatrici…», di continuo, ogni due parole ripeteva: «Ascoltatori e ascoltatrici». Mi mandano in bestia quelli così. E mentre guidavo, verso Bologna, mi son ricordato che l’altra sera, prima di partire per la montagna, ero andato a un concerto, e dopo un quarto d’ora ero andato via anche da lì. È andata uguale con la montagna. Settembre, e anche l’inverno, per me ogni anno è così: dove tocco sbaglio.
Quando sono arrivato in Romagna, dopo altre sette ore di macchina, autostrada, Autogrill, «Cari ascoltatori e ascoltatrici», non capivo più niente. Oltre ai capanni dietro le case, poco fuori dal casello, ho rivisto il mare; mi son fermato, era sera, c’erano le onde, piccole, mi son spogliato e ho fatto il bagno per un’ora. È stato liberatorio, nuotavo sott’acqua con la testa e mi sentivo come quei falchi della montagna. Poi mi sono asciugato, con calma, stavo bene, ho steso il lenzuolo sulla sabbia, ho aperto il tonno, i ceci, le gallette, la maionese, e ho mangiato fino a scoppiare. Un bel bicchiere di vino bianco, un filo di vento, il rumore del mare, e mi sono addormentato lì. Ero a due chilometri da casa, ma era tutto un altro mondo.

Ci accade

“Il desiderio non è una cosa semplice” diceva Freud. Eppure a volte l’esperienza empirica sembrerebbe dirci il contrario: non sarebbe difficile elencare tutti i beni materiali, gli oggetti e le esperienze di cui vorremmo entrare in possesso se potessimo rispondere alla classica domanda “esprimi un desiderio”, come accade ad Aladino nella favola de Le mille e una notte. Tuttavia la psicoanalisi ci insegna a non confondere il desiderio con la volontà. Se è vero che viviamo in una società che ha monumentalizzato la volontà senza limiti – “sapere quello che si vuole”, la cosiddetta self-confidence, sembra essere diventata la più grande delle qualità – il luogo del desiderio pare essere sfuggente. Al di là delle merci, al fondo di tutte le cose che vorremmo, c’è qualcosa che rimane opaco, qualcosa che non può essere espresso. Lacan diceva che il desiderio è segnato da una mancanza fondamentale: che non vuol dire, come molti pensano, che la rinuncia e l’infelicità siano il destino ineluttabile di questo mondo, ma semplicemente che la conoscenza di quello che desideriamo è mancante anche a noi stessi. Non lo possiamo esprimere proprio perché non ne sappiamo nulla. È il punto cieco della nostra coscienza.
L’inglese, che in questo è più preciso dell’italiano, separa il wish dal desire: possiamo pure volere (wish) una serie infinita di oggetti, eppure c’è qualcosa di questa volontà che finisce per mancare. Il desire è ciò che spezza l’appropriabilità infinita degli oggetti e delle cose. Nelle intricate logiche della vita amorosa noi possiamo scegliere tutte le donne e gli uomini di questo mondo – come succede con Tinder – eppure quello che desideriamo non lo scegliamo. Semplicemente ci accade. E anzi, spesso, non lo vorremmo neppure, perché il desiderio viene a squarciare il benessere della vita quotidiana.

di Pietro Bianchi, da Il desiderio non è una cosa semplice,
Doppiozero, 02/02/2018.

I passatelli

È domenica, mi son svegliato presto, ho fatto colazione, mi son messo le scarpe pulite e sono andato su a piedi, in piazza, a comprare i passatelli. È stato il freddo, che l’altra sera ha piovuto, ha fatto il temporale, subito mi è venuta voglia di brodo. Caldo. Son andato su, era un freddo asburgico, poi sono arrivato nella bottega, c’era una donna prima di me, era lì che comprava anche lei i passatelli, e intanto parlava con Mirko, quello che i passatelli li fa, li fa lui, son buoni i suoi passatelli, li sa far bene, e la donna gli diceva, a Mirko, che a lei non le piace fare i giri con la Ferrari, la domenica, perché suo marito guida, lui si diverte, ma lei no. «È una roba passiva», ha detto la donna. Mirko le ha dato ragione, un po’ per mandarla via un po’ perché, povero marito con la Ferrari, avrà pensato, e invece lui lì, chiuso nella bottega di domenica, a fare i passatelli. Dopo è toccato a me, ho comprato i passatelli per tre, Mirko li ha messi su un vassoio di cartone, poi ha messo il vassoio dentro una busta di carta, poi ha messo la busta di carta dentro una busta di plastica, e ho pagato. Mirko ha preso i soldi e li ha stesi nella cassa, ha guardato quanti ne aveva rimasti, di passatelli, ce n’erano sei o sette di numero, era ormai mezzogiorno, allora ne ha preso uno, crudo, se l’è messo in bocca, veloce, come se scottasse, quel passatello, l’ha mandato giù e mi ha detto: «Bravo». Io sono uscito dalla porta e c’era una Ferrari, parcheggiata storta, rossa, spenta. Son tornato giù a piedi con una fame che, non mi ha visto nessuno, ho fatto tutto il sottopassaggio di corsa.

Una gran palla

Tutto il resto era un gran rottura, una gran palla. E non succedeva mai niente di interessante, niente. La gente era limitata e diffidente, tutta uguale. E io devo vivere con queste teste di cazzo per il resto della mia vita, pensavo. Dio mio, ce l’avevano tutti il buco del culo, e il sesso, e la bocca e le ascelle. Cacavano, chiacchieravano, ed erano tutti scemi come biglie. Le ragazze sembravano carine, da lontano, col sole che brillava nei vestiti, nei capelli. Ma bastava avvicinarsi e ascoltare l’anima che usciva dalla loro bocca, e veniva voglia di scavarsi un buco e seppellircisi dentro con una mitraglia. Di certo non sarei mai stato felice, non sarei mai riuscito a sposarmi, a fare dei figli. Cazzo, non riuscivo nemmeno a trovar lavoro come lavapiatti.

da Panino al prosciutto
di Charles Bukowski