Ragazzi

In libreria, la cosa che preferisco è sistemare i pupazzi. Ci sono due espositori, per due dimensioni: grandi e piccoli. I grandi costano sedici e novanta, i piccoli sette e novanta. I grandi sono più belli. Abbiamo i panda, gli elefanti, gli unicorni rosa, poi ci sono dei pupazzi ibridi: sembrano dei gufi a quattro zampe, di tutti i colori. Hanno gli occhi tondi e neri, le pupille gigantesche.
«Ciao ragazzi», gli dico. «Come state?». «Bene, bene», mi dicono. «Siamo sempre qui». «Poverini», gli dico io. «Non vi ha ancora comprato nessuno, a voi». «Nessuno», dicono loro. «Intanto, ci sono qui io», gli dico. Loro miagolano un po’. Li accarezzo, poi li sistemo per bene negli espositori.
«Adesso vado. Ci vediamo dopo». «No, stai qui!», dicono alcuni, e altri: «Ciao ciao». «Ciao ciao», dico io. E vado via.

Pausa in bagno

Pausa in bagno. Perdo tempo. Penso a questo: c’è una persona dietro a tutte le cose che si vedono in giro. Esempio, la vetrina di una libreria. Cammini e ti fermi a guardare, ragioni sui libri, sulla disposizione, ma non ti salta in mente che quella vetrina è frutto del lavoro di una persona. Del suo mal di schiena, del suo cattivo umore, del suo desiderio che la giornata finisca presto. Almeno, a me non salta in mente. Ogni cosa del mondo esiste perché qualcuno ci ha lavorato. Incredibile, davvero.

Quella roba lì

Esco di casa e il cane della mia vicina mi abbaia contro. «Cosa c’è?», gli fa la mia vicina. «Brutto stupido, lo sai che non devi abbaiare a quella roba lì. Lo sai, stupido!».
Insomma, io sarei quella roba lì. Va bene.

Sei arrivata

Il mio collega che si chiama Alessandro, e che tutti chiamano Ale, è stato interpellato da una signora per un consiglio su un libro di dietetica. Alessandro le ha fatto vedere due libri e le ha detto: «Questi sono i titoli top. Se li leggi tutti e due, dài, sei arrivata!». La signora ha detto: «Ah, ok».
Arrivata dove?, mi sono chiesto. Con due libri di dietetica uno dove può arrivare? La signora li ha comprati entrambi, quei due libri, poi è uscita dalla libreria. Ne teneva uno nella mano sinistra e uno nella mano destra.

Un fusillo

Adesso lavoro in una libreria. A tutto assomiglia, meno che a fare il libraio. Va così. Se una cosa sembra una cosa, sotto sotto è diversa. Come le nuvole: guardo una nuvola e mi sembra un fusillo. Un attimo dopo ci guardo meglio e a tutto assomiglia, meno che a un fusillo.

Alla Carta

L’altro ieri Violante mi ha detto che è uscita una foto in cui c’è lei su Alla Carta, una rivista di fotografia. «Ah ecco perché sei contenta», le ho detto. «Non è vero che sono contenta», ha detto lei.
Oggi dovevamo andare a Bologna per incontrare Guido, un nostro amico. Avevamo deciso di partire per le cinque del pomeriggio. Alle quattro Violante mi ha scritto un messaggio, diceva: «Oggi va malissimo». Dopo mi ha telefonato per dirmi che dovevo andarci da solo, a Bologna. Io le ho detto che non ci sarei andato, da solo, e che Guido si sarebbe arrabbiato con lei. «Ma non capisci?», mi ha detto Violante. «Sto male».
«Come no», le ho detto io. «Ti schiodi da casa solo quando ti chiama un fotografo che vuole fotografarti». «Ma, boh…», ha detto Violante. Poi ha buttato giù. Ho provato a richiamarla, ma il suo cellulare era sempre spento.

Mozak

Ivan mi ha detto che cervello, in serbo–croato, si dice Mozak. Lui si fida solo del cervello, io invece credo nelle anime. Il soprannome che mi ha dato è Anima, appunto. Una mia collega anni fa mi chiamava Animale, diceva che sono un piccolo diavolo. Anima e Animale sono parole simili.
Ivan di cognome fa Poljak. «Ti sei mai accorto che Mozak fa rima con Poljak?», gli ho chiesto. Lui mi ha detto che Mozak e Poljak non fanno rima, perché non finiscono con tre lettere uguali, ma solo due. «Hai ragione», gli ho detto. «Sono proprio fuso». «Infatti il cervello sono io», ha detto lui. «Tu sei l’anima». Tutto torna.