Hai ragione

Violante dice che lei, se sta troppo male, non riesce a scrivere. Io le ho chiesto com’è possibile, visto che Dostoevskij, per esempio, l’hanno risparmiato sul patibolo, quando era già condannato a morte. «Pensa quanto ha sofferto, Dostoevskij», le ho detto. Lei ha detto che non devo parlare di quello che non so. «Hai ragione», le ho detto. Dopo sono stato zitto. Dopo ha parlato sempre lei, più che altro.

Tu sei uno zero

6 novembre

Il caposezione è andato fuori di testa. Quando sono arrivato al dipartimento, mi ha fatto andare da lui e ha cominciato a dirmi così: “Allora, ascoltami, per cortesia, cosa stai facendo?” “In che senso? Non sto facendo niente” ho risposto io. “Ascolta, pensaci bene. Hai già più di quarant’anni, è ora di mettere la testa a posto. Cosa ti sei immaginato? Pensi che non le conosca, tutte le tue sciocchezze? Corteggi la figlia del direttore! Ma guardati, ma pensaci un attimo, ma cosa sei, tu? Tu sei uno zero, e basta. Non hai un centesimo bucato. Guardati un attimo la faccia allo specchio, come hai fatto a immaginarti una cosa del genere?” Che ti venga una accidente, lui ha una faccia che sembra l’ampolla di un farmacista, in testa ha un ricciolo, arricciato come un ciuffetto, e se lo pettina verso sinistra, e se lo impomata a rosetta, e allora pensa di essere il solo che può far quello che vuole. Capisco, capisco perché è arrabbiato con me. Mi invidia; ha visto, forse, i segni di benevolenza che mi vengono riservati. Be’, io gli sputo in faccia. Sai che roba, essere consigliere di corte! Si è attaccato una catena d’oro all’orologio, ordina gli stivali da trenta rubli, che gli venga un accidente. Son forse un intellettuale, son figlio di un sarto o di un sottufficiale? Io sono un nobile. Posso far carriera anch’io. Ho solo quarantadue anni. È un’età che, a dir le cose come stanno, si è appena cominciato, a lavorare. Aspetta, amico! Saremo colonnelli anche noi, e forse, se dio vuole, anche qualcosa in più. Ci faremo una reputazione anche migliore della tua. Cosa ti sei messo in testa, che, a parte te, non ci sia nessuno come si deve? Dammi un frac di Rutsch, alla moda, lascia che mi faccia anch’io come te, il nodo alla cravatta, e non saresti neanche degno di allacciarmi le scarpe. Non ho i mezzi, ecco il problema.

da Memorie di un pazzo
di Nikolaj Gogol’
(1835)

Narrazione

– Da un po’ di tempo ormai mi rendo conto che c’è una tensione nel mio rapporto con te, – disse Svetlana. – E penso che la ragione sia questa: tutte e due costruiamo una narrazione sulla nostra vita. Forse è per questo che abbiamo deciso di non essere coinquiline l’anno prossimo. E forse è sempre per questo che siamo così attratte l’una dall’altra.
– Tutti costruiscono una narrazione sulla loro vita.
– Ma in misure diverse. Pensa alle mie coinquiline. Fern, per esempio. Non dico che non abbia una vita interiore o che non pensi al passato o non faccia progetti per il futuro. Ma lei non rielabora compulsivamente tutto quello che le succede per trasformarlo in una storia. È lei a far parte della mia storia, non sono io a far parte della sua. Questo crea una disuguaglianza fra me e Fern, ma dà anche una certa stabilità alla nostra relazione, una certa sicurezza. Ognuna delle due ha un ruolo diverso. È come un tacito accordo. Con te invece c’è più instabilità e più tensione, perché so che stai costruendo una storia anche tu, e che nella tua storia io sono solo un personaggio.
– Non lo so, – dissi. – Continuo a pensare che tutti vivano la loro vita come una narrazione. Se non avessimo in testa una specie di storia con un suo svolgimento, come faremmo a sapere chi siamo quando ci svegliamo la mattina?
– Quella è una definizione molto vaga di narrazione. È come dire che la narrazione è solo memoria più causalità. Ma per noi due la narrazione ha anche un’estetica.
– Ma non credo che sia per via della nostra personalità, – dissi. – Non dipende più da quanti soldi hanno i nostri genitori? Io e te possiamo permetterci di inseguire una certa narrazione solo perché è interessante. Tu sei potuta andare a Belgrado a fare i conti con la tua vita prima della guerra, e io sono potuta andare in Ungheria a conoscere meglio Ivan. Ma Fern durante l’estate deve lavorare.
Anche tu stai lavorando.
– Ma il biglietto aereo me l’ha pagato mia madre. Non è che devo fare dei soldi, tipo mandarli alla mia famiglia.
– Secondo me questo non c’entra. Fern è solo un esempio. I genitori di Valerie sono ingegneri, lei non deve lavorare, ma lei è comunque più simile a Fern che a noi.
– Non lo so, – dissi. – Mi sembra un modo di vedere le cose un po’ elitista.
– Non pensi che sia ipocrita, proprio da parte tua, sostenere di non essere elitista? – disse Svetlana. – Se pensi davvero a quella che sei, e ai tuoi valori?

di Elif Batuman
da L’idiota
(Einaudi, 2018)

McDonald’s

Per andare al McDonald’s ho sbagliato strada. Poi ci sono arrivato. Ho preso un menù più le crocchette da nove. Erano in sconto a due euro: nove crocchette a soli due euro. Ho mangiato tutto, era buonissimo. Sono arrivato a casa e mi sono steso sul letto. «Possibile che adesso sto così bene?», ho pensato.
L’ho detto a Violante. Lei mi ha parlato di enzimi. Dopo mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato, non stavo più così bene. Tutto normale. L’ho detto a Violante. «Tutto normale, di nuovo», le ho detto. «Ritorna al McDonald’s, no?», mi ha detto lei.

Tappi

Ho trovato nell’armadio i tappi per le orecchie. Funzionano, anche se mi dà fastidio poi sentire il mio respiro. Silenziano il fuori, ma non il dentro. Il mio dentro è egualmente rumoroso, fa casino. Il silenzio non esiste.

Un messaggio

Violante mi ha scritto un messaggio, dove diceva che stava abbaiando. Io non le rispondevo, lei mi scriveva che sicuramente stavo facendo qualcosa di losco. «Non sei sufficientemente reattivo». Dopo le ho risposto, le ho chiesto se la sentiva qualcuno, mentre abbaiava. Aveva detto di no. Ero più tranquillo. Ero tornato a dormire.

Ora solare

Ho fatto un sogno dove ero in bagno, allo specchio, che mi lavavo i denti con una spazzola per capelli. Era una cosa normale per me, ma nel sogno, lì allo specchio, mi ero accorto che quella spazzola era una spazzola e non uno spazzolino, e che i denti bisognava lavarli con lo spazzolino. Quando mi sono svegliato, mi sono chiesto se io, insomma, non è che sto sbagliando qualcosa, nella mia vita, e non me ne accorgo?

Anima sudata

È inutile quindi che mi vengano a parlare di questi scrittorucoli, di questi romanzi in finta pelle – questo sono –, questi romanzi che magari vincono lo Strega, ma che non sono sangue e carne. È solo finta pelle! Ti potrei fare tanti esempi di romanzi e scrittori del genere. Una di questi è la moglie di quell’attore, la Margaret Mazzantini. Dico, una che ti parla di ‘anima sudata’ in un libro. Lo tengo a mente per fare un esempio agli amici, durante le conversazioni, e ridere. Ma nemmeno Henry Miller sotto acidi avrebbe potuto inventarsi una coglionata simile. Nemmeno Dalì in uno dei suoi momenti più grigi, quando sua moglie gli aveva dato un sacco di botte e si era fatta inculare da tutti i surrealisti. È terribile! È di un kitsch, quando ti lasci andare a queste trovate, che possono piacere giusto a un pubblico che non legge. E secondo lei sarebbe poetica! Che poeticità del cazzo! Se lo scrivessi in una mia poesia, i miei amici e soprattutto i miei nemici mi sparerebbero a vista. E sai che ti dico? Farebbero bene!”.

dall’intervista di Matteo Fais a Franz Krauspenhaar, Mi sono rotto i coglioni della letteratura, Pangea, 2018
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Adesso

Ieri sono andato a vedere il Cesena, allo stadio, che era un bel po’ che non ci andavo. Adesso gioca in serie D, perché è fallita la società. Mi sono seduto dove mi sedevo sempre: due posti più a destra c’era quello coi pistacchi, sempre lui, e una fila dietro il vecchio con suo nipote, che quando Defrel giocava da noi, gli urlava: «Defrel, dài, scarnazza!». Mi aspettavo di trovare una certa nostalgia, della serie A, invece c’era la stessa aria, tutti scaramanticamente ai soliti posti, e mi sono sentito bene, in mezzo ai cesenati, col loro dialetto. Il vecchio, nella fila dietro, urlava: «Valeri dài, scarnazza!». La serie D è giù quattro leghe, dalla A, ma è meglio adesso, rispetto a prima. Non capita mai, di solito, che qualcosa sia meglio adesso, rispetto a prima. È bello.