Un uomo alla volta

Mostratemi un uomo che abita solo e ha la cucina perpetuamente sporca, e 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale. Mostratemi un uomo che abita solo e ha la cucina perpetuamente pulita, 8 volte su 9, vi mostrerò un uomo detestabile sul piano spirituale. Spesso lo stato della cucina riflette lo stato della mente. Gli uomini confusi e insicuri, d’indole remissiva, sono dei pensatori. Le loro cucine sono come le loro menti, ingombre di rifiuti, stoviglie sporche, impurità, ma essi sono coscienti del loro stato mentale e ne vedono il lato umoristico. A volte, presi da uno slancio focoso, essi sfidano le eterne deità e si danno a metter ordine nel caos, cosa che a volte chiamano “creazione”; così pure a volte, mezzi sbronzi, si danno a pulire la cucina. Ma ben presto tutto torna nel disordine e loro a brancolare nelle tenebre, bisognosi di pillole e preghiere, di sesso, di fortuna e salvazione. L’uomo con la cucina sempre in ordine è, invece, un maniaco. Diffidatene. Lo stato della sua cucina e quello della sua mente coincidono: costui, così preciso e ordinato, si è in realtà lasciato condizionare dalla vita e la sua mania per l’ordine, dentro e fuori, è solo un avvilente compromesso, un complesso difensivo e consolatorio. Basta che lo ascolti per dieci minuti e capisci che lui, in vita sua, non dirà mai altro che cose insensate e noiose. È un uomo di cemento. Vi sono più uomini di cemento, al mondo, che altri. Sicché: se cerchi un uomo vivo, da’ un’occhiata alla sua cucina, prima, e ti risparmierai un sacco di tempo.
Ora, la donna con la cucina sporca è un’altra questione, dal punto di vista maschile. Se non lavora altrove e non ha figli, la pulizia o la sporcizia della sua cucina sono quasi sempre (con qualche eccezione) in proporzione diretta all’affetto che nutre per te. Alcune donne hanno teorie su come salvare il mondo ma non sono buone a lavare una tazzina da caffè. Se glielo fai osservare ti rispondono: “Lavare tazzine non è importante”. Purtroppo lo è. Specie per un uomo che ha lavorato per otto ore filate, magari per dieci, con lo straordinario, a una fresa o a un tornio. S’incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta. Tutto il resto è magniloquenza romantica o politica.

da Troppo sensibile
di Charles Bukowski

I fascisti

Io penso che due cose, su questo governo, bisogna anche dirle. È che mi sento mosso da dentro, come si dice… Mi sento mosso? Si dice così? A me non me ne viene niente di difendere il governo nuovo, anzi, è un attimo che uno mette il naso qui dentro e zac, dopo non mi parlano più. Però non è possibile. Lasciateli campare. Hanno vinto le elezioni, e chi vince le elezioni governa, io la sapevo così. Uno vince e decide. Quando fai pari o dispari e vinci, decidi te, non decide l’altro. Se perdi tocca che stai zitto e ti adegui, hai perso…
Ma c’è Repubblica che fa dei titoli, ma dei titoli… Io mi chiedo, ma cosa c’avete sotto la pelle, i pomodorini marci? Questa “lotta” al fascismo… Dove sarebbero i fascisti? Ci sono quelli di Forza Nuova, o Casapound, non lo so, ma hanno preso lo 0,8% alle elezioni. Zero virgola otto. Siamo in tanti, in Italia, ma tanti; i fascisti sono lo zero virgola otto, dati alla mano. Non è che siete voi, di Repubblica, che vibrate di fascismo? Non lo so, la butto lì.
Mi guardo parecchio in giro, ultimamente. Ho chiesto, l’altro giorno, per curiosità, al barista che ho sotto casa:
«Te li hai visti i fascisti?».
Lui mi ha detto:
«Chi?».
«I fascisti», gli ho detto. «Te li vedi?».
Magari non sono umani, ho pensato, che è uscita su un giornale di Cuneo la notizia che due caccia militari hanno inseguito un ufo. L’hanno visto tutti, a Cuneo, tutti, ci sono cento testimonianze, han visto ‘sti due caccia che correvano dietro a un’astronave. Eppure il comunicato ufficiale dice che i caccia non erano due, ma uno, e che quel caccia stava facendo un giretto di prova. Non è che i due caccia davano la caccia ai fascisti? Forse volano, i fascisti. Forse è così.
Adesso a Bologna è tutta una biciclettata contro questo e quell’altro, manifestazioni, robe, non li sfango. L’altro giorno ho sentito uno che diceva che Bologna è diventata come nel medioevo, e aveva ragione, chiusa, imbruttita, la gente si è rincoglionita a star lì dentro, tra le mura, ti spegni, sono tutti simili e fanno tutti le stesse cose, dicono le stesse cose, gli piacciono le stesse cose. E si sentono piaciuti, anche, tra loro… Basta, bisogna aver la forza di uscire, andare a vedere il mondo fuori, come nel medioevo, scappare dalle mura e andar via.
Studiare, leggere, i libri, i giornali, sapere, voler capire tutto, che sega. Io non voglio più capire niente, voglio solo sentire, tornare a sentire…
Un po’ di tempo fa ho conosciuto dei ragazzi, che l’hanno fatta questa cosa, si son rotti i coglioni, hanno preso su e via, sono andati a stare fuori, aria al cazzo. Uno si chiama Tegu, l’altro Marco.
Tegu fa il batterista, è super, suona di brutto, sta a Senigallia, abita con sua nonna, mi ha detto, perché certe cose non le trova in giro, e vuole godersi sua nonna finché c’è, perché poi, quando non ci sarà più, con lei se ne andrà un patrimonio che non può ritrovare da nessuna parte. Bologna resterà uguale, sempre, i giovani, le mostre, i festival, tutte minchiate, e può tornarci quando vuole, a Bologna, anche fra dieci anni. Non ti perdi niente, puoi sempre tornarci, invece in provincia no, lì le robe cambiano, e tra dieci anni la nonna di Tegu non ci sarà più, quindi vuole stare con lei, lui, ascoltarla, sentire com’erano le persone una volta, nei loro cuori.
Marco invece è uno come me, che ha studiato economia, scrive le tesi per gli altri, a differenza di me ha perso i capelli, io ancora no, e scrive bene, Marco, è bravo, adesso ha scritto un libro che fra un po’ esce, e insomma lui dopo l’università ha bighellonato in giro, e adesso lavora in un bar, ad Asolo, lassù nel Veneto, e poi lavora anche la terra, dice che gli piace, e intanto scrive.
Una sera siamo andati al mare, al Conero, io e lui, con altri, e non c’era nessuno a parte noi, avevamo il vino, il pane e l’olio da farci due bruschette, erano le sei di sera, c’era ancora luce, era un po’ freddo, e abbiamo iniziato a parlare, parlare di noi, delle nostre vite, di quello che scriviamo. E si è fatto buio, non c’era più anima viva, niente, solo noi, erano le due di notte, il mare che faceva un po’ rumore con le onde, e le stelle, bellissime… E non so come, ma a un certo punto siamo arrivati a parlare di quello che vogliamo davvero, se c’è, se esiste qualcosa che vogliamo davvero…
«Te cosa vorresti davvero?», mi ha chiesto Marco. «Io vorrei che la mia ragazza fosse qui, a sentire questi discorsi che facciamo».
Era tutto buio, vedevo solo la sagoma della sua faccia, nera, e dietro le stelle, e mi è venuto da piangere, quando l’ha detto. L’ha detto con una sincerità, che a Bologna non l’ho sentita dalla bocca di nessuno, una sincerità così, e per fortuna che era buio, avevo gli occhi in piena, lui non mi ha visto.
Io cosa voglio davvero?
Già comincia a far caldo, giocano il Mondiale e l’Italia non c’è, questo sì che è un problema, non i fantasmi dei fascisti. Io attacco le macchinette antizanzare alle prese elettriche, e invece di Repubblica, magari, meglio qualche bacio, la sera, una carezza, e chiacchierare un po’, parlare di sé, delle cose che non si sanno, quelle belle, da indagare in due…
A me sembra che l’intimità sia scomparsa. Si è estinta, non la si vive più. Su Repubblica, però, non dicono niente dell’intimità. L’informazione, i media, che sanno tutto loro, che vogliono spiegarti le cose, e dirti chi sei, se sei fascista o no, dell’intimità niente… Fanno una tragedia di tutto, dell’Italia, invece a me sembra che in Italia stiano succedendo un sacco di cose, è bello, c’è movimento, ci sono dei ragazzi che prendono e tornano nei loro posti, insomma, sarà Bologna una tragedia, non l’Italia…
Chiudiamo così: io penso che arrivare a sapere lo 0,8% di sé stessi, altroché il fascismo percepito, qui, io percepisco solo un individualismo spinto, in tutti: contenti loro; ma dico sul serio, arrivare a sapere anche lo 0,6% o lo 0,5% di sé stessi, davvero, è tantissimo. E sarebbe già una grande libertà.

Luca Tosi

Quando scrivo, io, penso subito che dopo, magari, ci sarà qualcuno che mi pubblica. Vedo già la pubblicazione, le pagine stampate, e il mio nome, grosso, nel mezzo, in nero, Luca Tosi, che non è un gran nome, per uno scrittore. È corto, suona bene, ma è più un nome da impiegato, o da autista, mi sembra; da uno discreto, che si vede poco in giro, silenzioso, uno sintetico, che non si capisce, non si sa bene chi è, lo vedi e ha gli occhi da un’altra parte.
E quando ho finito di scrivere, dopo che ho scritto quelle due o tre righe, subito mi alzo, prendo il cellulare, e guardo se qualcuno mi ha cercato, una donna, se mi han scritto, su Whatsapp, qualcosina, una mail, un sms… E continuo a guardarci, sto lì, controllo bene, e non scrivo più, dopo, che nella mia testa sono già abbastanza, quelle due o tre righe, e invece i messaggi non sono mai troppi, o le mail.
A me piacciono le cose scritte, i messaggi, starei le ore lì a leggerli, a mandarli…
Da un po’ conosco della gente che è come me, e passiamo le giornate coi messaggi, di continuo, uno dietro l’altro, perché ne abbiam bisogno, raccontarci tutto è bello. Però non combini niente, in un pomeriggio, se hai da fare, degli impegni, è la fine.
Ma sempre meglio di quelli che fanno la dieta del cellulare, adesso, quelli là che si ostinano a tenerlo lontano, e non ti rispondono, gli eremiti, chissà cos’hanno da combattere. Due coglioni… A me piacciono quelle ragazze, in giro, da sole, sedute sulle panchine o nell’erba, al cellulare, che scrivono i messaggi e ridono. Mi fanno stare bene, quando le vedo.
Insomma, mi piacciono le robe scritte, a me, mi piace riceverle e pensare che mi pensano, le donne, che pensano a me, Luca Tosi, quello che scrive, un po’ sintetico, bello, intelligente, che ha scritto quelle due righe che sembrano scritte da uno scrittore; e che quelle due righe, quelle dieci parole, quante sono, precisamente quelle, le poteva scrivere solo lui.
L’Anna, prima, la mia coinquilina, che tra poco si sposa, ha detto che lei, i libri, la sera, non li legge, che non ce la fa. Legge troppo per lavoro, dice, ma Rimini di Tondelli le è piaciuto un sacco, la sua scrittura, dice. Io invece li leggo più che posso, i libri, la sera, e anche la notte, perché la mia scrittura non mi piace. Mi sembra sempre che sia zoppa, un po’ di quello e un po’ di quell’altro, un po’ insipida un po’ salata, un po’ gonfia un po’ stretta, un po’ nuova un po’ vecchia, un po’ bella un po’ brutta, insomma, l’Anna è interessata alla mia scrittura, perché le interesso io, all’Anna, ma la mia scrittura non sono io, è un altro, sono altri.
Sono in tanti, la mia scrittura, mica sono io e basta: a uno gli piacciono le bionde, all’altro le more, a uno quelle con le tette, l’altro guarda solo il culo, a uno gli piacciono i bocchini, all’altro leccare la figa. A uno gli piace l’Anna, all’altro non gli piace.
Però, quand’è la fine, credo, sono io, quello che si alza, adesso, e le vado incontro, all’Anna, con un foglietto, che le ho scritto una poesia, per farle capire… Chissà se capisce.
Fa così:

È un cortile
ogni donna
nel suo cuore.
E io corro lì dentro,
di qua e di là, urlo, rido
mi stendo sull’erba
poi prendo su il pallone
e vado a casa.

L’Anna la legge, poi mi guarda e dice: «Buonanotte, Luca Tosi», io la guardo e dico: «Buonanotte, Anna». L’Anna ripete: «Buonanotte…». Io non ripeto un bel niente, Anna.

L’hai detto

Barcolliamo fuori dal cinema e decidiamo che popcorn, Coca e caramelle non erano abbastanza. Attraversiamo la strada diretti in pasticceria, dove compriamo una scatola di biscotti. Perry li prende ricoperti di cioccolata, io con gli zuccherini colorati. Mangiamo i biscotti al bancone e parliamo. Senza dubbio Perry è bravo a parlare. Sembra un avvocato dinanzi alla corte suprema. Poi, interrompendo una frase di quindici minuti, si rivolge al tipo dietro al bancone e gli domanda:
«Questo posto è aperto ventiquattr’ore al giorno?».
«Sì», risponde quello.
«Sette giorni alla settimana?».
«Esatto».
«Trecentosessantacinque giorni all’anno?».
«Proprio così».
«Allora perché ci sono delle serrature sulla porta?».
Ci giriamo tutti a guardare. Che domanda acuta! Inizio a ridere così forte che devo sputare il biscotto. Gli zuccherini mi cadono dalla bocca come coriandoli. Potrebbe essere la cosa più buffa, più intelligente che sia mai stata detta. Sicuramente la cosa più buffa e più intelligente che sia mai stata detta in questa particolare pasticceria. Perfino il tipo dei biscotti è costretto a sorridere e ad ammettere: «Ragazzo, è davvero un mistero».
«La vita non è forse così?», dice Perry. «Piena di serrature assurde e altre cose inspiegabili?».
L’hai detto.

da Open, la mia storia
di Andre Agassi

BBOOOM

Mia mamma, in questo periodo, da quando fa caldo, è incazzata nera, perché abbiamo due cani davanti a casa che abbaiano fisso. Sono ignoranti come i muri, quei cani. Abbaiano nel vuoto, e vanno avanti per delle ore, la sera, la notte. Non si riesce a far niente, leggere, guardare un film, te lo puoi scordare. E poi la mattina, alle sette, di nuovo, incominciano. I padroni di quei due cani sono testimoni di Geova. Vacci a parlare, coi testimoni di Geova…
Mia mamma ha un piano: un giorno vuole caricarseli in macchina, quei due cani, e portarli in campagna, e scaricarli lì, e andar via. Io le ho detto che la aiuto, se lo fa, sono d’accordissimo. È ora di finirla. Ammazzarli con le polpette avvelenate sarebbe il piano B, ma poi soffrono, non va bene. Anch’io soffro, certi giorni, come tutti, ma non abbaio e non intaso le orecchie a nessuno, per strada.
I cani li odio, io, mi fanno schifo. Li odio come la street art, come le cose che non voglio vedere, perché non sono venuto a cercarle, e invece la gente te le vuol sbattere in faccia a tutti i costi, su internet, o in giro, mentre cammini. In questi anni la gente si è invasata, proprio. Tutti hanno una gran voglia, un gran bisogno di farsi vedere, e di farti vedere che sanno fare delle cose, e che esistono, insomma, ma sotto non hanno un cazzo da dire, a me sembra. Un po’ come i cani. Abbaiano abbaiano, e non si capisce niente.
Ieri sera mi son messo a urlare dal terrazzo, mi sono sgolato, col testimone di Geova, là, era in camicia, e aveva un cappello in testa, lo sceriffo, gli ho urlato di metterseli in casa, i suoi due cani, che han rotto i coglioni, erano tre ore che abbaiavano di continuo. Lui ha detto: «Eh?», e io ho ripetuto tutto, anche “coglioni” ho ripetuto, e lui li ha fatti entrare nel garage.
La mia mamma sarebbe andata fiera di me, peccato che era uscita con le sue amiche. Per qualche giorno ci sarà una tregua tra noi e i cani, e tra noi e i testimoni di Geova. Saremo in pace, con Dio e con Geova. Ci sarà modo di parlare, in casa, di leggere, di vedere un film.
Intanto ho comprato i petardi, ieri, dal tabaccaio, per sicurezza. I Raudi. Quelli tuonano. Se sento un solo rumorino, uno solo, giuro, uscire dalle bocche di quei cani, ne accendo sette, di Raudi, e glieli tiro addosso, contro il garage. Li bombardo di Raudi. A mia mamma son sempre piaciuti i botti, quelli forti, negli stadi, che ti sconquassano la testa.
E se i testimoni di Geova escono e si mettono a urlare, a indignarsi, ad abbaiare anche loro, a parlar di civiltà e tutte quelle stronzate da progressisti, gliene tiro altri sette, gliene tiro. BBOOOM.
Dopo vediamo chi abbaia più forte, vediamo.

Ragazzini per strada

È un po’ di tempo che mi piace stare nei parchi, ovunque mi trovi. Adesso che sono tornato dai miei, per un po’, c’è il mio amico cinesino che tutte le volte che passo dal parco, lui è lì, e urla e mi corre incontro con le mani in alto. Ride sempre, anche se non ha i denti davanti. Parliamo molto. In un anno ha imparato l’italiano, ma a volte proprio non lo capisco, lui ripete e ripete, io non capisco, e lui ci rinuncia e cambia discorso.
Ha compiuto 7 anni. Secondo lui io ne ho 8, non di più. Vuole sempre che mi metto a leggere sulla panchina vicino allo scivolo, così lui intanto fa lo scivolo, e poi l’altalena. Io faccio come vuole lui, ma poi non gli basta, vuole che gli spingo l’altalena e che salgo sullo scivolo in piedi. Gli piace quando lo faccio, perché lo scivolo è di ferro e rimbomba sotto i miei piedi.
«Basta lege», dice. Vuol dire basta leggere.
«Spige!». Vuol dire spingi l’altalena.
Io spingo forte e lui si caga in mano. L’altro ieri si è rasato i capelli. La scuola è finita, quindi è contento. Mi chiede sempre che scuola faccio io, perché mi porto lo zaino dappertutto. «Dov’è la tua scuola?». Io gli dico che è lontana. Lui dice: «Lontana come la Cina?». Io dico: «Più o meno, sì, come la Cina».
Due cose gli ho insegnato. Uno: le scoregge con le mani, ma ancora non gli vengono, però si applica. Sono sicuro che un giorno gli riusciranno alla perfezione. Due: il gioco del dito rotto, ma è lungo da spiegare, metto la foto. Quello già gli viene.
Oltre che al parco, lo incontro quando esco di casa, e lui è lì in fondo alle scale, esce per primo e mi chiude il portone in faccia. Oppure lo rivedo quando torno, la sera, che mi spara col Superliquidator dal terrazzo.
Gioca anche coi bambini italiani, tutti lì coi genitori… Lui invece è sempre da solo. Non so, vi siete accorti che di bambini italiani, in giro da soli, non ce ne sono più? Ci sono solo i cinesini, i marocchini, solo i bambini stranieri girano da soli. I bambini italiani stanno sempre con le mamme e i babbi a rimorchio, le babysitter, i nonni. Un mortorio, una roba invivibile. C’è una canzone di Jovanotti, che dice benissimo questa cosa, si chiama Ragazzini per strada, bellissima, e tutte le volte che l’ascolto mi viene in mente lui, il cinesino, e mi vengo in mente anch’io.
Un giorno ci siamo messi a inseguire una farfalla, e quando le siamo arrivati vicini, lui ha detto che non si poteva toccare, perché le farfalle bisogna lasciare che volino. Gliel’aveva insegnato sua mamma, ha detto.
Proprio sul più bello, adesso che siamo amici, dice che domani va in Cina, lui. «Ma come vai in Cina?», gli ho detto. Lui ha detto che ci va per 21 giorni, e poi per 5 giorni, non ho capito. Io gli ho detto che dopo le farfalle le uccido tutte, se lui va via. Lui si è messo a ridere. Avevo l’Autan in tasca e gliel’ho spruzzato sulla testa rasata, e lui si è sbatacchiato la faccia, poi ha unito le mani, se le è messe vicine all’orecchio e le ha schiacciate come si deve, ed è uscita una scoreggina, minuscola, ma ottima. La sua prima scoreggia con le mani.
Probabilmente sta insegnando il trucco ai suoi parenti, là, in Cina, adesso. Farà scalpore. Io invece son rimasto qui, al parco, con le mani in mano, non ho voglia di niente. Quando non c’è nessuno salgo sullo scivolo, vado un po’ sull’altalena, più forte che posso, e ogni tanto faccio un giro vicino alle siepi, in basso, e cerco le farfalle, ma possibile? Sono sparite anche quelle.

Scompensi del Chakra

Stamattina mi sono svegliato male male male, e la prima cosa che ho fatto, la prima, è stata andare in salotto, al mio tavolo, mio per l’ultimo giorno, e buttare nel bidone le monetine che avevo accumulato lì da mesi. Le ho fatte scivolare dentro il bidone con la mano, come si fa con le briciole, e le monetine, cadendo, sono risuonate forte. Sembrava grandine. Mi è venuta una gran risata, da sotto il petto, una roba disperata, proprio, che mi ha preso tutta la faccia, e mi son ritrovato così, col bidone in mano, nel silenzio.
Dovevo fare le valigie. Una valigia e cinque borse. Svuotare la casa. Ho portato via anche la lampada di sale che avevo comprato a gennaio, quand’era freddo e cercavo una cosa calda da mettere nel buio. Ho raccolto i miei panni, ho lavato i piatti di ieri, ho buttato tutto nelle borse senza mai fermarmi. Ma verso la fine, purtroppo, mentre controllavo di non aver lasciato niente, ho fatto un giro per casa.
Sotto il mio petto quella risata non c’era più, anzi, adesso c’era un vuoto enorme. Allora mi son seduto sulla sedia, al mio tavolo, dove mi metto sempre a scrivere, da cinque mesi, e ho pensato che non avrei più scritto, su quella sedia e su quel tavolo, mai più. Poi sono andato in bagno e ho pisciato, e ho pensato che non avrei più pisciato in quel bagno. Poi ho guardato il mio letto e ho pensato che non avrei più dormito in quel letto. Poi ho preso su tutto e sono uscito dalla porta con la mia bicicletta.
Ma sono rientrato in casa, dovevo lasciare le chiavi. Le ho lasciate sul mio tavolo. Vuoto. Non era mai stato così vuoto. Fino a prima c’erano tutti i miei libri, lì, le gallette di mais, l’Uliveto, la scatolina con lo zenzero, le mandorle, e le monetine. Vuoto.
Ho aperto il frigo, ed era vuoto anche quello, benissimo, tranne una cosa, però: in basso, nell’ultimo ripiano, in fondo, c’erano gli gnocchi di patate della Pam. Li avevo messi lì apposta, per dimenticarmeli, cazzo, perché volevo che restassero lì, quando sarei andato via, gli gnocchi. Ho chiuso il frigo con cattiveria. Sono andato alla finestra per respirare, e ho guardato il bar che ho sotto casa, che non lo rivedrò più, e ho guardato proprio la finestra, il vetro, che è ancora pieno di bacini stampati, che quest’inverno mi piaceva alitarci e baciarlo, ne facevo uno al giorno, uno per tutti i giorni, e stavo meglio, senza buchi dentro. Ero tutt’uno, io, qui dentro.
Invece questo buco sotto il petto, adesso, è pesantissimo, e non mi passa. L’avevo avuto a gennaio, sempre, boh, ma poi l’avevo riempito, avevo comprato la lampada di sale, facevo yoga, davo i baci al vetro, e mi ero dimenticato di lui.
Allora, prima di partire in bici, con tutte le borse in spalla, ho telefonato a una mia amica, una che mi aiuta, si chiama Violante, ci aiutiamo, lei ne sa in generale, sia di me che del resto, così le ho chiesto come si fa a riempire questo buco. Lei mi ha detto che il buco è colpa degli SCOMPENSI DEL CHAKRA che ho adesso. Mi ha spiegato che ci sono sia scompensi che lacerazioni dell’aura, si sentono anche al tatto, che lo yoga aiuta e che esistono delle tecniche precise, spiegate in certi libri, ma lei pensa che per queste cose servano dei maestri, o PERSONE SENSATE.
Su sé stessa, dice, quando le capita il buco, i libri non funzionano mica, funziona solo la risonanza, cioè stare con qualcuno di sano, prendere la sua vibrazione e via. Quando si blocca l’energia o c’è un calo, mi ha detto, si creano rispettivamente una depressione e una lacerazione. Buco nell’aura = epistassi energetica.
«Più che altro, credo che sia un accorgersi che non è tutto come crediamo noi», mi ha detto.
Ci ho pensato su. Probabilmente si riferiva agli gnocchi. La verità è che io valgo meno di quegli gnocchi, chiusi in frigo (marcite lì dentro), e degli gnocchi in generale, ‘fanculo.
Alla fine ho lasciato la mia casa, e non ci tornerò più. Siamo io e il buco, adesso. È lui che abita dentro di me, e sarò io che fra qualche tempo, se trovo il modo, magari, ci sarà da patire, lo costringerò a prender su le sue cose, a far le valigie e a uscire da questo petto, che io non sono la casa di nessuno.
Fino ad allora, non si sa. Non le avevo contate, le monetine. Non le avevo contate.

Acqua e vino

Quando mio babbo ha detto:
«Se non mi sposavo con te, io non mi sposavo più», la mia mamma l’ha guardato, e non ha detto niente, ma sotto sotto… Poi si è decisa a dire:
«Cosa vorresti dire?», e mio babbo, in tutta franchezza, le ha risposto:
«Avevo già 32 anni…».
E lei:
«Cosa avresti fatto?».
«Sarei andato all’estero, sarei andato», ha detto mio babbo.
Lei non le digerisce frasi così. La vedi, che si sente mancare; come se tutto il passato che ha nel cervello cominciasse a tremare. Negli occhi le si accende una vendetta, che poi sfuma subito, mentre sistema un tovagliolo o si alza per lavare un piatto, cambiare canale.
Invece mio babbo quel pensiero lo tiene lì, sulla punta della fronte, e mastica piano, occhi sul bordo del piatto, perché più in là c’è lei, le mani sulla tovaglia mai oltre il confine, vicino alle bottiglie, acqua e vino, e chissà sotto, come son messi coi piedi. Di solito mia mamma accavalla le gambe, il babbo invece le slarga, e poi fa ballare le ginocchia.
In tutto questo l’estero rimane lontano. Come anche il passato. Come i se.
Direi che l’estero, per fortuna, rimane all’estero.

Pane e vino

Si era stesa sopra un ramo dell’albero a non far niente. Aveva appoggiato la testa su un braccio, e la mano pendeva giù dal ramo. Sotto la sua mano passava il vento, e sotto il vento il grano era piegato verso i sassi bianchi, uno qua e uno là. Bianchi come la sua mano. Vicino ai sassi erano cresciuti dei fiori rossi, come se vicino al pane ci debba sempre essere il vino. Non solo: c’erano anche un bossolo da fucile e la bustina di un integratore. Aminoacidi ramificati. A lei non interessava, il ramo le indicava di guardare il sole, dritto laggiù, ma aveva già chiuso gli occhi. Il vento non riusciva a spostarla, la sua mano. Non c’era sangue lì dentro, solo ossa e aria. Era vuota. All’ombra.
Da qualche parte, nel bosco, c’era un cacciatore con un fucile in mano, che se fosse passato di lì, di sicuro si sarebbe fermato a guardarla dormire.

Il menù

In foto: S di Alberto D’Amico

Immaginate trenta file da dieci persone, separate da un corridoio ogni tanto, i finestrini ai lati, le luci per leggere e l’aria condizionata a tutto spiano. Immaginatevi che ognuna di quelle persone, sedute nelle trenta file da dieci, spalle strette, gomiti sacrificati, stia mangiando una vaschetta di cibo sul tavolino richiudibile del sedile davanti. Immaginate il menù: pasta col sugo di funghi e salsiccia, contorno d’insalata mista, pane, cracker, burro, formaggio sciolto, salsa yogurt e tortina al mirtillo. Ma immaginatevi che tutto sia mignon, in piccole confezioni di plastica complete di posate e fazzolettino, acqua da 25 cl.
Se hai fame, puoi immaginare, mangi più che volentieri, non stai a farti tante seghe, stringi i gomiti e neanche lo senti; ma se non hai fame e ci pensi, e scarti la fretta che ti ha preso la faccia nel masticare, se ti fermi e ti guardi intorno, fa paura. Sembra un formicaio. O una dittatura.
Ma va bene così, per questo fa paura.
Hai pagato per questo, e tutto sommato agli altri sta bene, chiacchierano e sbevazzano, le hostess ti rimpinzano il bicchiere e l’aereo vola dritto. Immaginatevi trenta file da dieci persone, separate da un corridoio ogni tanto, i finestrini ai lati e il mondo tondo fuori. Non c’è più bisogno d’immaginare niente.
Ammucchi le cartacce nella scatolina più grande, e dentro la scatolina media dentro la scatolina piccola. Una hostess passa a sparecchiare, poi schiaccia il pedale del bidone del carrellino che spinge, e ci scarica tutto dentro: noi, trenta file da dieci, seduti vicini. Lo senti?
Non siamo neanche morti. Abbiamo pagato un biglietto. L’aereo vola dritto, e a pensarci bene c’è uno che lo sta guidando.