Bello. Adesso muoio. Ciao.

Dipinto di Jack Kerouac, Sacred Heart.

È stato un giorno strano ieri, cominciato male: ero in bicicletta, forbici e scotch nelle mani, sotto un portico, vicino a una grondaia, che stavo attaccando un volantino; li ho fatti io, scritti e stampati, poi li ho tagliati e ho fatto le frangette col mio numero di cellulare; tutto sommato un volantino curato, editoriale oserei dire, e insomma lo stavo attaccando, era l’ultimo, ne avevo stampati più di trenta e quello era proprio l’ultimo, ero lì sotto un portico vicino alla grondaia e pensavo: «Ma non è meglio che non lo attacco, visto che è l’ultimo?»
Potevo tenerlo per ricordo o ci potevo far le fotocopie, tra due o tre mesi quando mi sarebbero riserviti. Ma poi no, ho detto: «No, lo attacco», e l’ho attaccato per bene, con lo scotch di qua e di là, dritto perfetto, un bel lavoro, e visto che era l’ultimo, l’ultimissimo, mi è venuta voglia di leggerlo.
E poi arrivo in fondo, dove ci sono le frangette con scritto il mio numero, scritto piccolino, e leggo anche lì, e rileggo due volte…
Non è possibile. Ho sbagliato a scriverlo? Trenta volantini dappertutto col mio numero sbagliato?
Mi son sentito un idiota, ma un idiota vero, autentico. E adesso?
Adesso mi tocca rifarli tutti e staccare quei vecchi e attaccare quei nuovi: un lavorone. E poi non mi ricordo tutti i posti dove li attaccati, come faccio? Niente, ho lasciato perdere e son tornato a casa, ho buttato lo zaino per terra e mi sono steso sul divano, gambe lunghe, coperta, mani sulla pancia, e ho dormito quattro ore, tutto il pomeriggio. Mi son svegliato che era notte. Non capivo più niente. Mi son messo seduto sul divano e ho pensato: «Ma cosa è stato?». E non era per i volantini, ma per il sogno che avevo fatto. Non ho mai fatto un sogno così.
Insomma in giro, nei telegiornali, dappertutto nel sogno, dicevano che era l’ultimo giorno del mondo. L’ultimo. Dicevano che quella notte sarebbe scoppiato il cielo e saremmo morti tutti. Alcuni erano preoccupati, altri no, non si capiva bene. E io, quella sera, chissà perché, ero a San Mauro Pascoli, in piazza, forse perché San Mauro Pascoli è dove abitano i miei nonni, ma non c’erano i miei nonni, c’era la Martina, una che abitava a San Mauro un po’ di anni fa, e lei era lì nel mezzo della piazza e io le ero andato incontro e l’avevo salutata, ma poi il cielo aveva cominciato a spaccarsi. C’erano delle crepe d’argento luminose, e poi le luci e dei buchi verdi gialli rossi e si sentivano scoppi di continuo. A un certo punto si è cominciata a muovere la terra sotto i piedi, a piegarsi, ad alzarsi come le onde, e io e la Martina eravamo scappati, tutti correvano, cercavamo di salvarci perché c’erano dei punti dove l’ossigeno veniva meno, allora correvamo ma non tanto per salvarci, era per vedere, volevamo vedere fino in fondo.
Era arrivata un’onda altissima come nei film mentre correvamo, e c’eravamo riparati dietro una casa e un sacco di gente era stata travolta, proprio una valanga d’acqua, ma noi stavamo bene, eravamo come DiCaprio e quell’altra sul Titanic, uguali, andavamo per mano, e poi il cielo era sempre peggio e io pensavo ai miei genitori e ai miei nonni, chissà dov’erano, se erano già morti, e in pratica il cielo si era bucato, si vedeva l’universo e non si respirava più, e la Martina l’avevo persa di vista così avevo tirato fuori il cellulare e c’era un messaggio di mio babbo che diceva: «Bello. Adesso muoio. Ciao».
E poi il buio, le urla…
Mi son svegliato per un rumore in casa ma poi mi sono rimesso giù, per vedere come finiva. E il sogno è continuato in un altro posto, la Martina non c’era, era una specie di prigione e io ero lì con altri che dovevamo fare dei lavori, perché nel mondo nuovo si doveva fare così, e ogni tanto uno lo liberavano e passavano i giorni e c’erano alcuni che erano lì da tantissimo ma non li liberavano, invece a me sì, mi hanno fatto uscire, e quando sono uscito ho scoperto che la fine del mondo era stata tutto uno spettacolo, se l’erano inventata quelli della televisione, e adesso era uscito il libro che spiegava tutto. Ma la Martina? Era viva o no?
Allora ho pensato che quel sogno era stato colpa dei volantini, che sono un idiota, devo rifar tutto, è vero, e anche con la Martina nella realtà è andata malissimo, e anche con lei se voglio, se vuole anche lei, che non è detto, bisognerebbe rifare tutto.
E poi ho pensato che se uno vuole non si deve abbattere, non deve aver la pigrizia, anzi deve essere contento di rifare le cose perché questo è il mondo e se un giorno finisce, dopo non si può più rifare niente. Invece è bello il mondo, è molto bello. Come diceva il messaggio di mio babbo sul cellulare: «Bello. Adesso muoio. Ciao».
Adesso correggo il mio numero sui volantini, li ristampo, esco e prendo la bicicletta e faccio il giro del quartiere, vado sotto quel portico vicino alla grondaia, e poi giro anche tutta Bologna, e anche l’Italia, il mondo, coi miei volantini nuovi, vado dappertutto. E non torno a casa finché non scoppia il cielo.

Delfino

Sono sul treno, è caldo, è quella mezza stagione che non si capisce, sento la temperatura del mio corpo che va per i fatti suoi, hai presente? È la primavera; non me la ricordavo così, la primavera, ogni anno è peggio, sempre più dura da smussare, all’inizio, appena arriva. O che sono io, che ogni anno son più noioso? Bisogna stare attenti, con la primavera. Ti frega. Un po’ di sole, ti dà il contentino, e poi prendi la febbre, il mal di pancia, tutto. Me l’aveva detto la Benedetta, l’altra sera, l’aveva ridetto quattro volte, «Sta’ attento, copriti, ti freghi,» diceva, «marzo e aprile, fa rima, ti devi coprire», e io no, senza giacchetto, maglia aperta, vino, birra, comunque non fa rima, aprile con coprire. Ma lei aveva bevuto di più, sempre vino, senza neanche mangiare, era ubriaca per bene, due occhi chiari, piccoli, diceva: «Sta’ attento, copriti, prendi il mal di gola», e io non capivo se scherzava, boh. Io le ho detto che c’avevo ancora i calzini di lana, nei piedi, non ci credeva, ha voluto sentirli con le mani se erano di lana, e ci è rimasta male. Che poi, me ne sono accorto lì, mi si erano girati col tallone in su, quei calzini, mi succede spesso la notte, mi sveglio e li ritrovo così, e gliel’ho detto, lei ci ha pensato un po’… Il motivo non l’abbiamo trovato. E poi m’ha raccontato una cosa privata, strana, che le è successa, che ci ha pensato se dirmelo o no, «Te lo dico?» diceva, e poi me l’ha detto, m’ha raccontato che adesso ha un moroso, uno che fa l’educatore, e l’altra volta, ha detto, l’altra volta, per la prima volta nella sua vita, lei, con lui, ha avuto un orgasmo vaginale. Ha detto che ormai si era rassegnata, che aveva letto delle robe, su internet, che ci sono delle donne che l’orgasmo vaginale non lo possono avere, e invece, proprio l’altra volta, con lui, l’educatore, l’ha avuto. Si sono fermati, stop, ha detto, si sono guardati, lui le ha chiesto: «Hai scoreggiato?» e lei: «No, sei venuto?» e lui: «No».
È andata così. Da quella volta, dice, ha scelto un nome, per sé stessa, che si chiama Benedetta, un nome nuovo: Delfino. Perché il delfino spruzza, dice. E io ci pensavo, mentre lei parlava, chissà, metti che viene a letto con me, e se con me non succede? E dopo?
E comunque poi ha cambiato discorso, ha detto che lavora in un ristorante, che sta bene, ha trent’anni, ma il suo moroso, l’educatore, vuole lasciarlo, basta, perché lei è un Delfino, è libera, e invece lui fa il muso quando lei esce con le sue amiche, e lei non sopporta queste cose: se uno è fatto così a lei non le va bene, vuole uno diverso, non uno che s’impegna a fare il bravo, ma uno che è fatto bene di suo, compatibile, dice, e lei vuol essere libera, senza tanti restringimenti. Da piccola, dice, la sua nonna ha fatto sette figli e il suo nonno la tradiva, che suo nonno era un ricco, ha viaggiato, un commendatore, e la sua nonna è sempre stata zitta, anche se poi si è separata da lui, si è separata che a quei tempi non c’era ancora il divorzio, era forte la sua nonna, ma poi a Pasqua e Natale lo invitava lo stesso a mangiare, al nonno, perché i suoi figli dovevano vedere di chi erano i figli.
Poi ha cominciato a piovere, abbiamo parlato di politica, e un po’, lì, con la politica, lei è per la Bonino, io tutto il contrario… Però quando partiva a dire una cosa che le stava a cuore, coi suoi capelli corti, era bella, mi sembrava un ragazzino, uno che non si tiene. E andare a letto con una così, pensavo, io, che sono lento, lei così rapida in tutto, prima ha detto che il pisello del suo moroso, l’educatore, le piace un sacco, anche se lo vuol lasciare, che lei lavora al ristorante, fuma, vende l’erba, vede la gente, io sto sempre da solo, non è mica facile. E parlando, parlando, non si è accorta che pioveva, e si è bagnata tutta la chiappa, giacchetto e pantaloni, tutta, e ci siamo alzati, ormai il bar chiudeva, non c’era più nessuno, a un certo punto mi ha detto: «Ti darei un bacio», e io non ho detto niente. Era naturale, ho pensato, ma è brutto dirlo, «Ma perché l’hai detto?» le ho detto, e insomma, di qua e di là, dopo dieci, quindici, venti minuti ci siamo baciati, dentro il bar vuoto, che fuori era venuto freddo, lì sul bancone, c’aveva una lingua lunga e larga che non l’ho mai sentita una lingua così, e mi ha detto: «Fa’ piano», ma a me sembrava che stava facendo tutto lei. E m’ha accarezzato la guancia, io volevo toccare la sua chiappa bagnata, ma non l’ho toccata, è lo stesso, poi basta, siamo andati ognuno a casa sua.
Chissà l’educatore, dopo, a casa, l’orgasmo vaginale, se è riuscito di nuovo.
E io sono qui sul treno, col pizzico alla gola, mi sono vestito troppo colorato, la pancia che mi fa male, è stata la primavera, o è stata lei? E sembra estate di fuori, a Pesaro, il mare azzurro, senza nessuno, e la cosa strana è che in tutto questo mare, di sicuro, da Pesaro a Lecce e tornar su fino a Trieste, e anche dall’altra parte, dalla Liguria a Roma, giù fino a Trapani, qui da noi, nel nostro mare, non c’è neanche uno straccio di delfino.

La prefazione

Succede che sto lì col libro in mano, lo rigiro, lo guardo a testa in giù, lo stringo, mi faccio vento, striscio una guancia sulle pagine per cercare qualcosa, delle scritte che non ho ancora visto, quelle nelle prime pagine, che quando cominci a leggere non le vedi neanche, e poi il codice a barre, i numerini, le barre sottili e le barre grasse, sono di più quelle sottili o quelle grasse? Chi vince?
E poi niente, lo lascio lì e gli do un’occhiata da in piedi, lui è fermo e io vado via, esco, e per un po’, cinque o sei ore, ragiono con quella testa, col cervello del libro o di quello che l’ha scritto, e non capisco mai se è meglio o peggio, se sono diventato intelligente o più stupido. Poi lo caccio dalla mia testa e passano i giorni e non ci penso più.
Quando torno a casa il libro è ancora lì, con la copertina che viene su, sembra che ti vuol venire in braccio, frigna; ci sono un mucchio di libri nel mondo, ne voglio un altro e invece lui, sul divano, le pagine in silenzio, non si muovono, ma la copertina… Allora lo prendo e lo metto sulla mensola, lo rivolto con la copertina in giù, schiacciata, così sta zitto. Ma delle volte, la sera, dopo mangiato, torno lì alla mensola, in punta di piedi, e guardo se è ancora così, a pancia in giù, se non si è mosso, lo bado, vado a pisciare e poi ritorno, che mi ricordo tutto io, di lui, e invece lui dorme e mi dà le spalle, e se non lo riprendo va a finire che si dimentica di me.
È come con le donne: coi libri ci vai a letto, ci mangi insieme, ci fai dei viaggi, li porti al parco, li accarezzi, li annusi, li tiri contro un muro e ci fai la pace… Me li ricordo tutti i miei libri, quello che era nervoso, quello coi capitoli corti, quello che non finiva mai, quello che andava sempre a capo, insomma sto a sentire i libri come sto a sentire le donne: seduto in un angolino. Che poi anche una donna non è che la stai a sentire solo te, ma anche degli altri: non puoi pretendere di essere l’unico. Se un libro l’ha letto una persona sola vuol dire che non era un gran libro; uguale con le donne: se una è stata solo con te è strano, vuol dire che non aveva tanto mercato.
Però c’è una cosa nei libri che invece le donne non ce l’hanno: la prefazione. Ecco, quella sì che sarebbe utile. Così capisci prima a cosa vai incontro.
O forse è meglio così, senza prefazione?
Se c’è da piangere, alla fine, meglio piangere, se ti senti quella cosa che sale da dentro, che vien su per la gola, se ti senti gli occhi che si gonfiano… Meglio non sapere niente, allora, non sapere mai niente, e ogni volta cominciare una storia, ben venga, come se fosse l’ultima.

L’occhiata e Schifiltoso

L’occhiata

Il signor Leo va quasi tutti i giorni a trovare Velio Betti in bottega. Se il tempo è buono si mette a sedere sulla porta, tiene le mani incrociate sul bastone, fa due chiacchiere o sta zitto. Per il sole ha gli occhiali neri e certe volte si porta dietro il giornale. Va lì per stare un po’ in compagnia, lui e il babbo di Velio da giovani erano amici, e anche perché a Velio quattro anni fa ha prestato dodici milioni per comprare i muri. Ma non è che gli stia addosso, che dica niente. Viene a dare un’occhiata.

Schifiltoso

Uno così schifiltoso non l’ho mai visto. Tutto il giorno era dietro a lavarsi le mani. Teneva il manico della tazza del caffè verso l’alto, dritto al naso, beveva dove non beveva nessuno. D’estate l’aranciata la prendeva sempre con la cannuccia. E anche nelle baldorie guai a sbagliare bicchiere, aveva schifo di tutti, un ultimo dell’anno, che gli era caduto per terra il cucchiaino, ha lasciato lì a metà la zuppa inglese. Non stringeva la mano a nessuno, con la gente stava sempre un po’ lontano, e quando qualcuno si riscaldava nel parlare e gli veniva troppo vicino, e per di più magari sputacchiava un po’, lui si strisciava una mano sulla faccia, come non volendo, come se si grattasse la barba, e poi invece la mano se la fermava aperta sotto il naso, contro la bocca. Che mettersi a sedere su una sedia calda da cui s’era appena alzato qualcuno preferiva piuttosto stare in piedi. Quando viaggiava in treno non toccava mai niente, e nello scendere si prendeva alla maniglia con due dita. Ogni tanto si faceva rapare a zero per rinforzare i capelli, ma anche perché i capelli erano un ricetto di polvere, di porcheria, di microbi. Aveva sempre paura delle infezioni, di prendere le malattie, che gliele attaccassero. Nominava spesso la Tina di Zioli che da ragazza nel grattarsi un foruncolo con le mani sporche s’era fatta venire il sangue e tre giorno dopo aveva quaranta di febbre e non c’è stato niente da fare. A un cane non ha mai fatto una carezza, nello spaccio non l’hanno mai visto leccare un francobollo. Era sempre pulito, anche un po’ profumato, perché il profumo in fondo disinfetta.
E col tempo poi la gente ha capito, non gli stavano vicino, il barbiere aveva un rasoio solo per lui, non gli domandavano in prestito nemmeno il giornale. Ma non è bastato. È morto tisico a trent’anni.

da La náiva Furistír Ciacri
di Raffaello Baldini

Durerà molto?

Perché io sono innamorato della vita, sul serio, le voglio bene. E penso: durerà molto? Ieri son passato in bicicletta per il ponte, e sotto c’era l’autostrada che faceva la curva, e le macchine che arrivavano da là, in pompa, e io lì, sopra tutte quelle macchine, che pedalavo, e mi sentivo come uno che scappa e sa che non lo prenderanno mai. Perché io sono innamorato della vita, davvero, mi fa piangere ormai sempre, ogni momento è buono, è troppo bella la vita, in tutti i casi, non scherzate, lasciamo stare le autostrade, venite via da lì, lasciamo stare anche le macchine, dieci, ventimila euro per un pezzo di latta, da far ché? Prendi su e cammina, o pedala, nel sole o nel buio, perché, chi lo sa… Durerà molto? Guarda i colori, le parole, il fiume, le persone, i gatti: tutti col loro tempo addosso, attorno alla pelle; e non è tanto morire, va bene morire, io sono innamorato della vita, morte compresa, ma è la mia di morte, non la sua, non è la morte della vita, lei va avanti.
Mi sembrava che fossi io la vita, invece no, io sono io, e la vita non si stufa, a lei piace giocare, da matti, nel parco, col sole, con la neve, anche se c’è qualcuno che finisce sotto una valanga, o qualcun altro che c’ha un tumore nella pancia, o un altro ancora che scoppia perché ha mangiato troppo. È così: io finisco, termino, finirò; la vita no, troverà altra compagnia. Ma io sono innamorato per davvero, io mi sono innamorato di lei, come facciamo? Non mi vede che mi gratto gli occhi, per non piangere? Non vorrà mica che mi butto giù dal ponte, che sotto passa l’autostrada, faccio una strage.
Sta’ attenta, guarda che faccio una strage, qui, se mi lasci perdere. Cosa ho fatto di male? Non ti ho mai tradita. Non posso mica tradirti con un’altra, ci sei solo te, non c’è nient’altro. E dopo venti, trenta, ottant’anni che sto con te, ti vuoi sbarazzare di me? Non sarà vero.
No. È meglio che muoia prima io, così soffro meno. Se morissi prima te di me, cosa sarebbe? Lascia stare, va bene così. Son stato vanitoso, ti chiedo scusa. Fa come se non avessi detto niente. Io a una certa muoio, te non farci caso, divertiti, fai le tue cose, vai avanti. Adesso torno a casa, passo per il ponte, l’autostrada, tutte quelle macchine, e mi fermo a comprare una boccia di vino, una buona, e dopo a casa mi faccio la doccia, mi lavo i capelli, li asciugo, mi metto la giacca, le scarpe pulite, e poi mi siedo a tavola e bevo un bicchiere. E poi vado a letto.

Ho parlato con uno

Ho parlato con uno, prima, uno che c’aveva la voce bassa, raccontava che stamattina, mentre andava per legar la bici, ha pedalato sul marciapiede, insomma, in sella alla bici, e ha incrociato due poliziotti che l’hanno fermato, e uno, diceva, un poliziotto alto, un armadio, pelato, bianco da far schifo, l’ha fermato, e gli ha detto che non può pedalare sul marciapiede, non si può, deve scendere, oppure andare per strada, ma non lì, che è contromano, ma di là. E lui non è mica stato zitto, mi raccontava, anzi, gli ha detto al poliziotto che gli sembrava complicato, per arrivare alla rastrelliera, dover passare da di là e poi attraversare la strada, che c’è sempre traffico. Tutta ‘sta boba per tre metri in bici sul marciapiede? Ma questo non gliel’ha detto, si è trattenuto, e poi il poliziotto è andato via e lui ha legato la bici. E poi m’ha raccontato che è andato in biblioteca, e doveva far pipì, ma non l’hanno fatto entrare in bagno perché era pieno, che adesso hanno messo uno che fa da guardia, in biblioteca, non è più che te entri e bussi, no, se è occupato non ti fanno neanche entrare, se uno si deve solo lavar le mani non può. E poi mi ha detto che quello qui, quell’uomo che faceva la guardia al bagno, era vestito con una camicia bianca e sopra un maglione color panna, che la panna sopra il bianco è un pugno in un occhio. E poi m’ha raccontato che è uscito dalla biblioteca, ha ripreso la bici, è sceso dal marciapiede e ha pedalato di corsa fino al bar, perché gli scappava da morire. E poi è arrivato e l’ha fatta tutta. Era stata una pisciatona, ha detto, e mentre la faceva, là, sul fondo del cesso, si era immaginato la faccia del poliziotto a bocca aperta, e siccome la pisciata era molto molto lunga, dopo si era immaginato anche il maglione panna del guardiano del bagno, si era immaginato di pisciarci sopra, per fargli prendere colore almeno. E poi niente, è uscito dal bar, è salito sulla bicicletta ed è partito con un’impennata, che mi è sembrato la persona più contenta del mondo.

Al mio paese

Oggi son tornato al mio paese, che era un po’ che non ci tornavo, e subito ho visto Ferri, a spasso, coi suoi cani, il piumino leggero, la faccia scura, che si fa le lampade lui, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto una bambina bionda, che è inciampata nel marciapiede, poverina, è caduta, s’è fatta male al ginocchio, e rideva, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto Carichini, uno della mia età, con un cappotto da trecento euro, e i capelli rasati sopra le orecchie, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto una signora, da sola, seduta sulla fontana, coi Ray-Ban adesso che fa buio tardi, che si sfogliava le mani, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto una casa ristrutturata, coi doppi vetri, le persiane nuove, i muri senza una crepa, il campanello lucido, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto un piatto di maccheroni sull’uscio, lasciati lì per il gatto, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto la scritta “VARCO ATTIVO”, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto una suora grigia, una peruviana credo, appoggiata a un camper che scriveva al cellulare, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto il babbo di Berlini, che faceva il palo nel corso, le mani nelle tasche, coi suoi occhiali da imprenditore, che sembra che sia il padrone di tutto, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto una sportina di plastica che m’è passata davanti, che oggi c’era il mercato, ancora stanno smontando le bancarelle, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi mi son ricordato l’alito di mio zio, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto una vecchia che accendeva i lumini sul terrazzo, dodici, tredici lumini, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto il Caffè del Portico, che ci son tutti quei bombozoni schiacciati lì, sotto la veranda, che ti guardano, che parlano, bevono, ridono, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto una ragazza, fresca, senza una ruga, sarà del 2000, con due tette, la frangetta, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto il mobilificio di Biagetti, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi sono andato su fino al campanone, e ho visto una donna con suo figlio, che camminavano veloci, che qui tutti hanno una gran fretta di arrivare a casa, chiudersi dentro, e sono andato su, e su in cima non c’era nessuno, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi, dopo un po’, mi girava la testa e mi prudeva il culo, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi ho visto il cielo, e subito mi è venuta voglia di andar via. Ma poi ho visto ancora il cielo, e subito mi è venuta voglia di rimanere. Ma poi mi sono seduto sulla fontana, e poi son tornato al paese vecchio, poi giù per la via Cupa, ho fatto tutto il viale, fino alla stazione, son passato per il parco, e quando sono arrivato a casa, che c’era la mia mamma, tutta contenta che c’ero anch’io a mangiare, aveva fatto le fragole, zuccherate e tutto, io le ho detto che erano buone, e lei ha detto «Mica tanto», ha detto che non erano le nostre, quelle fragole, ma che venivano da chissà dove.

Perché scrivi?

È colpa degli americani. Gente come Kerouac, o Bukowski, e poi anche Henry Miller se io scrivo. Perché scrivevano quello che gli succedeva, se stavano male o bene. E allora anch’io, se stavo male o bene, potevo dirlo, per spiegarlo a qualcuno.
Prima degli americani credevo che bisognava star bene, aver dormito, fatto la doccia, mangiato, e poi mettersi lì, la penna, i punti e virgola, un sacco di punti e virgola. E poi fantasia, immaginare, ti dicono a scuola. Invece gli americani andavano a letto che era mattina, di lavarsi non ne parlano mai, ma bevono, stanno fuori la notte, cercano da scopare. Non pensano ai draghi e alle fatine, gli americani. Bukowski diceva: “Quando scrivo io, l’eroe sono io”.
Ho questa idea degli americani, credo, da mio nonno, che mi raccontava la guerra, di quando aveva quattro anni e i tedeschi gli avevano ammazzato la cavalla, e diceva sempre: «E poi sono arrivati gli americani!». Avevano la cioccolata, i modellini, le cicche.
Quando ho finito Addio alle armi, Hemingway, a proposito di guerra, sono svenuto, in cucina, mentre mia mamma puliva l’insalata. O quel capitolo di Walden, quando Thoreau fa le pulizie, e porta tutti i mobili fuori, nel prato, e a vedere il suo tavolo al sole, che era abituato a vederlo sempre in casa, si commuove. Oppure con Delitto e Castigo, anche se non è di un americano, era estate, e mi sentivo crescere, sotto pelle, con certe pagine.
Ecco, le pagine belle io cercavo. Non le storie lunghe, la morale, due coglioni. In guerra non ci sono andato, non abito nei boschi, ancora, e fino adesso non ho ucciso nessuno. Però qualche scortico ce l’ho. E tanta voglia di fare il vagabondo. E se quegli americani si erano sentiti sperduti, e falliti, e avevano scritto delle pagine così, allora la miseria è genuina, mi sembra, e stare male, forse, sentirsi sbagliati, anche per me, può diventare una pagina bella.

A casa di Dio

Era il luglio del duemila e dodici, e c’era un tempo della madonna. Non è che tirava vento, non ancora, ma lo sentivi che stava per venire giù il mondo. Marcello e il macedone erano andati a chiudere tutta la roba, gli ombrelloni, i lettini, e in quel momento aveva iniziato a piovere, a diluviare. Marcello era tornato su per primo, invece il macedone era rimasto sulla riva non si sa a far cosa. Era un tipo alto con gli spalloni, il macedone, e c’aveva la testa quadrata.
Quando Marcello era arrivato sotto la tettoia, il suo capo era lì impalato con le braccia conserte che guardava il macedone laggiù sulla riva. Era incazzato a bestia il capo, e continuava a dire: «Ma perché non torna su, quel somaro? Perché non torna su?»
Marcello faceva una gran fatica a non ridere, ma allo stesso tempo era anche preoccupato.
Per fortuna, dopo cinque o dieci minuti, il macedone si era incamminato sulla passerella e stava risalendo verso di loro. Appena il capo l’aveva visto partire, gli era andato incontro correndo, incazzato sul serio, e Marcello l’aveva seguito. Il capo era molto grasso e aveva i baffoni, sembrava l’oste di una commedia, e di solito non scherzava mai e non correva mai.
Mentre camminava, il macedone aveva visto che il capo era bello incazzato, così aveva guardato Marcello, da lontano, e già gli veniva da ridere a tutti e due. Allora quando il macedone è arrivato su, il capo l’ha preso per una spalla e gli ha detto: «Sta’ a sentire. Se giù fa brutto tempo, voi dovete tornare subito, perché dopo è un attimo… Un fulmine vi becca e andate a casa di Dio.»
Su “a casa di Dio” il macedone e Marcello si son guardati, e a Marcello gli è andata bene che era un po’ dietro, che a lui il capo non lo vedeva, perché stava morendo dal ridere. Ha fatto finta di buttare una roba nel bidone, ma c’aveva le lacrime in faccia.
Il macedone, invece, praticamente gli rideva in faccia al capo, ma il capo era troppo preso dal temporale, ed era come se non lo vedesse.
Finita la ramanzina, tutti e tre si erano riparati sotto la tettoia, ma non fecero in tempo a dir niente che venne giù un fulmine, là, sulla riva, che spaccò la sabbia con una briscola tremenda.

Un uomo!

Lavoravo al seggio elettorale, era per il referendum del duemilasedici, l’ultimo che c’è stato, quello che ha schiantato Renzi. Saranno state le quattro del pomeriggio, finalmente, il primo momento morto dopo l’ondata della mattina, tutto quel via vai di gente, la fila, le carte d’identità, le patenti spellate, le nonne, uomini, donne, e certi che venivano col cane; si vota col cane, adesso? Stavamo parlando un po’, io e Carlo. Carlo era l’altro scrutatore. Lui si era preso il registro delle femmine e io quello dei maschi, perciò lui chiamava le donne, io invece chiamavo “un uomo!”, di continuo, uno dietro l’altro, “un uomo!” e le donne là, sulla porta, si giravano indietro e ripetevano “un uomo!”, e finalmente un uomo entrava. Veniva da me, io registravo tutto, e poi l’uomo andava a votare. Come dicevo, verso le quattro del pomeriggio, in un momento di calma, quando molli, che ti stravacchi sulla sedia, sbadigli a cannone, e ti parte anche lo spirito di scherzare, in un momento così, è arrivato questo qua, un certo Castellani, sui cinquanta. Aveva i capelli che gli stavano su a strati, come il Grand Canyon, e le attaccature nere dei denti alle gengive, nere, nerissime. Castellani ci ha messo del tempo per votare, nella cabina, forse era indeciso. Carlo, intanto, c’aveva sotto mano la carta d’identità di una che si chiamava Silvia, che a suo tempo aveva un moroso che andava in motocross. La Silvia aveva votato in un baleno, si vedeva, non aveva dei gran dubbi dietro gli occhi. E quando Castellani era tornato da me a riprendersi i suoi documenti, mentre pensavo a cosa mangiare dopo, e ai cani in fila fuori, a quanti cani ci sono, e a quanto sono pochi i ragazzini per strada ultimamente, mi è scappata di bocca una roba soprappensiero. Non l’ho fatto apposta. È che mi ero rilassato troppo. Ho detto: «Prego, Castellàz», e gli ho allungato i documenti. Castellani li ha presi e ci ha pensato un attimo a quel Castellàz, mi ha guardato da lì, in piedi, e io l’ho guardato da seduto, basso come un cane. Poi lui ha detto: «Cosa?»
Carlo ha cominciato a ridere sottobanco, piegato con la faccia sui registri, che scriveva per far finta di far qualcosa. Anche me è venuto da ridere, poi la gravità mi ha circondato e ho sentito il rischio tutto attorno, il pericolo, non sapevo cosa fare, cosa dire, se scusarmi; ho detto: «Mi scusi?»
E Castellani fa: «Ci si diverte qui.»
A quel punto mi sono girato verso le donne sulla porta, in fila, per suggerirgli che invece c’è da fare, e che è ora che si levi dai coglioni. Sono tornato serio tutto d’un botto, ed ero pronto per dire una parola netta, solida, e cavarmelo da lì davanti, ma senza darmi il tempo di aprir bocca, Castellani ha preso su i documenti, così, agilissimo, ed è andato via. E con tutta un’altra voce, che ci ero rimasto un po’ sconfitto, ho chiamato: «Un uomo!»