Perché scrivi?

È colpa degli americani. Gente come Kerouac, o Bukowski, e poi anche Henry Miller se io scrivo. Perché scrivevano quello che gli succedeva, se stavano male o bene. E allora anch’io, se stavo male o bene, potevo dirlo, per spiegarlo a qualcuno.
Prima degli americani credevo che bisognava star bene, aver dormito, fatto la doccia, mangiato, e poi mettersi lì, la penna, i punti e virgola, un sacco di punti e virgola. E poi fantasia, immaginare, ti dicono a scuola. Invece gli americani andavano a letto che era mattina, di lavarsi non ne parlano mai, ma bevono, stanno fuori la notte, cercano da scopare. Non pensano ai draghi e alle fatine, gli americani. Bukowski diceva: “Quando scrivo io, l’eroe sono io”.
Ho questa idea degli americani, credo, da mio nonno, che mi raccontava la guerra, di quando aveva quattro anni e i tedeschi gli avevano ammazzato la cavalla, e diceva sempre: «E poi sono arrivati gli americani!». Avevano la cioccolata, i modellini, le cicche.
Quando ho finito Addio alle armi, Hemingway, a proposito di guerra, sono svenuto, in cucina, mentre mia mamma puliva l’insalata. O quel capitolo di Walden, quando Thoreau fa le pulizie, e porta tutti i mobili fuori, nel prato, e a vedere il suo tavolo al sole, che era abituato a vederlo sempre in casa, si commuove. Oppure con Delitto e Castigo, anche se non è di un americano, era estate, e mi sentivo crescere, sotto pelle, con certe pagine.
Ecco, le pagine belle io cercavo. Non le storie lunghe, la morale, due coglioni. In guerra non ci sono andato, non abito nei boschi, ancora, e fino adesso non ho ucciso nessuno. Però qualche scortico ce l’ho. E tanta voglia di fare il vagabondo. E se quegli americani si erano sentiti sperduti, e falliti, e avevano scritto delle pagine così, allora la miseria è genuina, mi sembra, e stare male, forse, sentirsi sbagliati, anche per me, può diventare una pagina bella.