Una parola

Massaggino ha due esse e due gi, ma sono le due gi che fanno la differenza. Mi fanno sentire calmo e circondato da nessuno, insomma in una stanza dove al massimo si è in due, che uno chiede all’altro: «Mi fai un massaggino?»
Massaggino è una parola così, che se la pronunci in mezzo al mercato non la sentono dall’inizio alla fine, mentre se la pronunci in una camera, su un divano o su un letto, ti riempie il silenzio, ed è talmente lunga che prende tutto l’ossigeno che hai: in qualche modo liscia i pavimenti, sbianca i muri.
E poi finisce in -ino, e in generale tutte le parole che finiscono in –ino, per me, sono più leggere delle altre; sono sottili, fragili, e quando le dico mi sembra di tenerle tra due dita, appena appena, come l’ala di una farfalla.
Massaggino l’ho imparata da mio babbo, quand’ero piccolo, che avevo mal di pancia, e il mio babbo diceva: «Ci vuole un massaggino, adesso ti faccio un massaggino.» E funzionava. Invece se te lo fai da solo non funziona. È una parola da compagnia, da volersi bene, da guarigione, e la puoi usare anche se non stai male per davvero, qualcosa fa.
L’unico problema è che non si può chiedere un massaggino a chiunque. Bisogna avere un po’ di confidenza, altrimenti ti prendono per uno senz’ossa, un debole, un maniaco dei massaggini. Ancora è un tabù nella nostra società. Certe donne pensano subito male. Tu le chiedi: «Vuoi un massaggino?», e hai tutte le buone intenzioni del mondo, ti sembra di essere dolce, premuroso, e invece lei ti guarda come se la volessi stuprare con le buone, e si scansa, ridacchia, e poi non la rivedi più.
Va usata con parsimonia, massaggino. Io, adesso, non la spreco, me la tengo per le occasioni speciali. L’anno scorso, che è stato un anno buono, l’ho usata tre volte. Quest’anno ancora nessuna. Va così, purtroppo. Mi manca un sacco, sul serio, e un po’ mi fa stare male. E niente, ci vorrebbe un massaggino.